PAOLO MENEGHETTI

"ALL'OMBRA DI UNA POTENZA TRASPARENTE"

(La metafora del Bicchiere in Gino Sabatini Odoardi)

 

Secondo il filosofo francese Henri Bergson, il movimento è una sezione transitoria della “durata”, nella misura in cui qualsiasi “corpo”, in grado di spostarsi da un certo “punto” di partenza (per noi, individuabile in chiave “sensibile”) ad un altro (giocoforza successivo, nonché finale), costituisce pure una sorta di interno (essenziale!) passaggio temporale, fra un dato “momento” iniziale ed uno pertanto conclusivo. Per questi motivi, esso gli sembra “tagliare” di continuo un preciso “periodo” eventuale (variamente, sulla base dei diversi casi, in termini di minuti, ore, giorni, ecc…), proprio perché recide lo “spazio” (ossia, ciò che assicura la stessa “dislocazione” totale) mediante numerosi rinvii, di stampo per così dire “cronometrico”. Dunque, il movimento seziona il tempo, ma qui in chiave necessariamente transitoria (tramite una certa “frequenza” di passaggi momentanei): come sappiamo, anche Aristotele scelse di studiare una simile affermazione. La durata resta quindi la dimensione davvero “unitaria” del processo tramite spostamento, risultando la reale “totalità” del medesimo rinvio cronometrico. In fondo, nel movimento il punto iniziale ha senso solo nel suo ineluttabile “approdo” esaustivo. La “durata”, insomma, spiega il semplice fatto che un certo istante di prima “partenza” giàrimanda al proprio allegato “termine” temporale. Essa fonda un continuo cambiamento (fra ciascun ripetuto “attimo” cronometrico, in grado di sezionare lo spazio), in se stesso sempre “paradossale” (considerato che i “singoli” ben differenti ritagli si giustificano solo assieme a tutti gli altri, quelli ovviamente rimanenti). Secondo Henri Bergson, il movimento esprime un mutamento, laddove a “dichiarare” ogni volta la medesima “variazione” temporale è un’ambigua recisione di luogo. Per tali motivi, se da un lato esso viene a richiedere delle dettagliate “parti” in gioco (ossia, i singoli “istanti” di spostamento), dall’altro il cambiamento di questi in realtà essenzialmente riguarda la stessa totalità del processo: la durata. Qui, come di consueto, dobbiamo ricordare che un singolo momento di transito ha senso solo assieme a tutti gli altri.

Così, quando il giovane (ma già affermato!) artista Gino Sabatini Odoardi decide di installare circa cinquanta bicchieri di vetro, “aggettanti” da un solido muro (mediante la scelta di costruire alcune “comode” mensole sottostanti), egli giunge ad “intuire” il medesimo (assai noto) “problema filosofico” di comprendere al meglio la durata. L’opera, che s’intitola Si beve tutto ciò che si scrive (risale al 2002, con la mostra a Città Sant’Angelo), lascia che i suddetti “minuti” contenitori trasparenti vengano disposti in modo un po’ sparso. Ogni bicchiere, poi (coerentemente con il precedente assunto teorico, che richiede un generale “diradarsi scenografico”), possiede una diversa quantità di liquido: qui, si versa inchiostro nero. Recuperando il discorso effettuato da Bergson, possiamo notare che anche nella “strana” installazione creata da Gino Sabatini Odoardi compaiono differenti sezioni di movimento interno. Infatti, ciascun bicchiere sembra continuamente dislocato, dato che il liquido offre l’illusione ottica di riuscire a “spostarsi”, in chiave però appena verticale (quasi innalzandosi, o viceversa solo abbassandosi).

Per questi motivi, allora, ogni diverso contenitore di vetro possiede una “sezione di movimento” strutturale, dal momento che la superficie orizzontale ad inchiostro “recide” lo spazio in maniera unicamente dinamica. Ovviamente, la “temporalità” resta la stessa (s’intende: da una prospettiva puramente fisica…), ma proprio nel medesimo istante essa viene idealmente a dislocarsi, nella corsa virtuale del liquido (sia verso l’alto, sia tendendo al basso). Tutti i cinquanta contenitori di vetro, insomma, paiono per-durare in blocco, consentendo così di “ri-muovere” la statica parete murale. Ancora una volta, la sottolineatura estetica per cui ogni diverso bicchiere sembra “dislocato” molto presto rimanda ad un’eventuale lettura dell’opera più fedelmente totalizzante, come se la già citata temporalità processuale concernesse l’intera “conclusione” dinamica (nel caso di Sabatini Odoardi, espressamente artistica). I singoli contenitori vogliono perciò durare, anziché “stabilizzarsi” (in via appena “definitiva”) nel normale “decorso cronometrico”. Ma la loro vera “continuazione” resta di stampo essenzialmente (intrinsecamente) unitario, esattamente perché a “mutare” è sempre un solo oggetto, di volta in volta diversamente “sezionatore”.

Di certo, quando il giovane artista sceglie di installare (nelle immediate vicinanze) anche una misteriosa colonna di “pagine”, egli desidera in prevalenza “caricare” la sua opera di ulteriori significati “antropologici”. Così, fuor di metafora, i fogli di carta stampata riproducono una frase abbastanza esplicita: si beve tutto ciò che si scrive (dal momento che gli uomini “assorbono” in modo assolutamente “immediato” ogni banale pregiudizio culturale comune). Purtroppo, nella società mediatica attuale, l’inchiostro che ci consente di “trasferire” molto in fretta le nostre informazioni quotidiane è meramente nero. Forse, qui si vuole ribadire con forza la dimensione troppo falsamente oscuradel nostro odierno “convivere civico”, come se noi non sapessimo più “contestare” a dovere (liberamente) tutte le scialbe “convenzioni concettuali”. Al di là di questo, ci sembra interessante notare che Sabatini Odoardi decide di sezionare il “linguaggio” in modo però (paradossalmente) continuativo. Infatti, i disparati “ritagli” di carta stampata (appoggiati sopra la colonna) manifestano una scrittura quasi indecifrabile, laddove tutte le singole parole curiosamente si legano assieme. Ancora una volta, rintracciamo qui la solita predilezione “dialettica” (già molto cara a Bergson), per cui il particolare “movimento” di lettura (il “posizionamento” dell’occhio sulla pagina…) “esprime” un vero e proprio sezionamento di comprensione totale.

A ragione, allora, il filosofo Bergson può affermare che pure la “complessiva” durata giunge di continuo a “cambiare”, benché in maniera appena qualitativa. Infatti, essa non muta mai in chiave meramente quantitativa (come nel caso dei ripetuti “tagli” singolari del tempo), esattamente perché si pone in via del tutto unitaria e totalizzante. Piuttosto, la durata cambia in modo solo essenziale: varia, insomma, nella misura in cui è da se stessa una continua trasformazione di “campo” spaziale. La sua “dimensione processuale”, in effetti, già ne risulta proprio assolutamente costitutiva. Henri Bergson ricorda che un qualunque animale si “disloca” prettamente allo scopo di saper mangiare, migrare, accoppiarsi ecc…, laddove un simile “fine” rappresenta una chiara durata temporale, capace di individuare una sola (unica) “totalità” di senso transitorio. Il movimento, quindi, gli pare istituire una sorta di paradossale potenza “formatrice”: una tesi, questa, già ben cara al celebre greco Aristotele. Ciononostante, la prospettiva filosofica avallata dal francese vuole “rinnovarsi” meglio, nella misura in cui la possibilità di una “conclusiva” conversione in atto (quando, insomma, lo “scopo” viene davvero conseguito!) non si pensa più da un’ottica solo “finalistica”, bensì anche dal punto di “vista” prettamente iniziale dello strano (ambiguo) processo di trasfigurazione totale.

Se, certamente, il movimento è del tutto “potenziale” (dal momento che rimanda comunque ad un preciso approdo esaustivo), Bergson preferisce in primis sottolineare che, una volta realizzato, pure il medesimo “obiettivo” giunge a mutare (evidentemente, rispetto a ciascun precedente “singolo” taglio di spazio temporale). Dunque, anche lo scopo finale resta in se stesso appena “possibile” (quantunque in maniera ora essenziale, ossia di matrice solo “qualitativa”). Quando si consegue il “proposito”, esso risulta proprio cambiato(dato che non è più unicamente “in potenza” di farsi poi attuare). D’altro canto, la “durata” ha valore soltanto nella misura in cui il suo iniziale “punto di partenza” si spiega già (in se stesso) con la successiva fine transitoria. Lo spostamento viene davvero compreso con la mera “conclusione processuale”, ma allora anche il medesimo “esito” (attualizzante) si pone in chiave essenzialmente mossa. Basta sapere che esiste in qualità di pura “trasformazione” potenziale, a causa di una “realizzazione totale” da ottenere tramite un inevitabile rinvio di continue “sezioni” temporali.

Lo scopo, dunque, va costantemente mutato lungo tutto il normale “passaggio cronometrico”, sin dal proprio (necessario) inizio di esaustiva “trasfigurazione” in atto. Così, Bergson dichiara che muovere è cambiare la durata: qui, significa variare la totalità di un dato proposito. Propugnando una simile dottrina, la finalità sembra quasi “ridimensionata” da se stessa, siccome viene intesa in chiave assai “dialettica” (ad esempio, rispetto alla normale tradizione aristotelica), in maniera tale da conferire maggior valore alla più “ambigua” trasformazione processuale. Per il noto filosofo francese, ad esempio, la semplice “caduta” di un corpo qualsiasi avviene soltanto perché una certa forza di attrazione lo “conduce” su di sé. In questo caso, dunque, la “spinta finalistica” (nella misura in cui essa raffigura il necessario scopo di “cambio temporale”!) fa precipitare il medesimo “risultato” conclusivo, già al momento di “cominciare” il suo specifico movimento interno. Bergson aggiunge che la stessa attrazione fra i diversi atomi esprime una “forza energetica” realmente totalizzante, cioè in grado di “dislocarli” sempre assieme (qui, lo “spostamento” di uno si dà con l’immediato “avvio” dell’altro). Per i suddetti motivi, il movimento non gli sembra tanto un “fine” (per un concetto ancora troppo “statico”!) quanto piuttosto una paradossale vibrazione (una terminologia dai sicuri “impliciti unificanti”, tesa a sottolineare la venatura “durevole” di qualsiasi differente transizione temporale).

Giocoforza, valutando la dimensione “totalizzante” di una data trasformazione in atto si arriva a comprendere che pure quella fa parte di un “processo” assai superiore. Lo scopo, insomma, vibra (anche se non “si disloca” affatto). Per chiarire al meglio la propria interessante visione, Bergson porta un esempio abbastanza originale. Così, quando qualcuno mette dello zucchero in un bicchiere d’acqua, per capire davvero il “movimento” di questo (evidentemente, espanso dentro al liquido) bisogna attendere che esso si sciolga del tutto. Il “dolce” saccarosio, quindi, si comporta alla medesima stregua di una qualunque “attrazione atomica” (ricordando l’istanza precedente): avvia una propria durata di “transizione locale”, il cui preciso “fine” singolare ha senso solo nella propria totalità di “spostamento”. Ancora una volta, quindi, lo scopo coincide (in maniera assolutamente ambigua, ossia “dialettica”…) con tutto il movimento di “espansione temporale”, che da se stesso resta sempre (intrinsecamente) processuale. In un certo senso, quando lo zucchero si scioglie in modo completo (e dunque, proprio al “termine” del suo spostamento…), sembra curiosamente rimanere in chiave essenzialmente “unificante” (senza che una simile “interezza” si dia in modo banalmente nuovo, “staccato” o diverso, almeno da una lettura più fedelmente “fenomenologica”, anziché puramente empirica). In effetti, la dimensione totalizzante, per il grande filosofo francese, già si trovava al momento di “cominciare” la reale transizione temporale. Perciò, allorché il saccarosio si diluisce del tutto, esso non fa che restare in una situazione comunque “intera” (s’intende: proprio a partire dal medesimo “inizio” processuale!).

La dislocazione di ogni singola particella chimica è dunque già (sin dal primo istante!) in grado di cambiare la “totalità” del “dolce” transito espansivo, giudicato in base al suo necessario “esito” trasformatore. Naturalmente, a vibrare in maniera prettamente “unificante” resta la normale acqua di riempimento (contenuta dentro al bicchiere), anche perché proprio questaconsentirà, al termine del processo di ovvia “risoluzione” empirica, di trasfigurare del tutto lo zucchero. Per tali motivi, essa è pure la dimensione davvero “totalizzante”, nel movimento di preciso spostamento temporale. Secondo Bergson, l’acqua contenuta nel bicchiere vibra in modo semplicemente “spirituale”. In sostanza, quando “aspettiamo” che il saccarosio si sciolga del tutto, ci accorgiamo che la “durata” in merito all’intero processo di “trasformazione in atto” seziona lo spazio (mediante i disparati “istanti di cambiamento”) in chiave puramente energetica. Si tratta, insomma, di individuare una molto paradossale forza temporale, capace di varare i suddetti “tagli”, continuamente “unificanti” (ossia, perennemente predisposti a rimandare già da se stessi al più “completo” obiettivo terminale).

Ad ogni modo, quando Gino Sabatini Odoardi sceglie di installare una serie di quindici bicchieri (analizzati dal medesimo Bergson!) racchiudenti un “vino” appena virtuale (con l’opera denominata Impossibilità espressa, risalente ormai al 1995), scoviamo proprio una simile visione artistica. Qui, essi vengono disposti lungo tre adiacenti file verticali (regolarmente ordinate), mentre ciascuno di loro resta stabilmente appoggiato ad una piccola mensola da muro, a tinteggiatura peraltro del tutto bianca (alla stregua della stessa “comune” parete basilare). La qualità intensamente “rossa” del vino ha perciò una sua simbolica “passionalità vitale” ora completamente vana, considerato che la “liquidità” non è fisicamente reale, bensì dovuta alla decisione di “giocare” con le immediate illusioni ottiche, grazie alla scelta tecnica di far cristallizzare un po’ di gesso colorato. Tutta la composizione risulta espressamente dialettica, dal momento che alla prima (scontata) trasparenza del materiale in vetro si accompagna quella molto più interna o “sottile”, nella misura in cui in fondo manchiamo di bere davvero.

In un certo senso, i piccoli bicchieri creati da Gino attestano che l’utilizzo umano di un qualunque “oggetto tecnico” (adesso, usato per “sfogare” un bisogno addirittura “essenziale”, al fine di vivere) possiede una sua (intrinseca) vanità elementare. In effetti, quando un individuo si serve di una data “cosa”, giunge ad “applicarle” una funzione solo esteriore, che in verità non le appartiene per nulla. Lo “scopo”, dunque, ha una connotazione per così dire subito contenutistica (s’intende: abilitata a racchiudere un certo senso, ad “accerchiare” un oggetto qualsiasi così da dividerne la propria immediata materia “potenziale” da una più terminale forma finalistica). Ma un tale “raccoglimento” solo parametrico (tecnicistico) in verità resta appena illusorio, e quindi sembra “riunire” in chiave puramente trasparente, o meglio ancora vetrata (pensando alla medesima installazione di Gino). La vanità della normale “operazione contenutistica” (di ramo evidentemente concettuale) si comprende bene nella misura in cui l’artista sceglie di far inclinare lo stesso “liquido in gesso”. Riscontriamo qui un ulteriore elemento dialettico: da una prospettiva davvero “naturale” (o gravitazionale), ci si aspetterebbe che la dettagliata “superficie” (sezionante, rispetto all’involucro di vetro) del vino rimanesse “spontaneamente” già salda in linea orizzontale.

Ancora una volta, l’indefessa ricerca dei diversi equilibri esistenziali testimonia il “desiderio” simbolico di rimuovere tutte le “vecchie” consuetudini culturali (pregiudiziali), benché adesso la chiara dislocazione concettuale conduca a restare comunque in una conclusione “retta”. Anche se la superficie del “vino” rimane pur sempre obliqua, basta che lo spettatore inclini lievemente la sua testa per accorgersi che in realtà la linea finale è di nuovo regolare (dovuta, semplicemente, ad altri comodi “parametri convenzionali”). La stessa sezione, dunque, non si presta ad alcuna conclusione solo ingenuamente “consolatoria”.

Nell’interpretazione offerta da Bergson, invece, la durata ritagliante, in quanto “energetica”, assume una connotazione in prevalenza spirituale. Di sicuro, la “vibrazione” su cui si fonda (anche a livello meramente “chimico”!) si comprende, da una prospettiva subito concettuale, solo tramite una complessa “astrazione dialettica”. Ciononostante, considerato che da un’ottica banalmente “empiristica” ci sembra assai più “naturale” separare del tutto lo “scopo” dal proprio (necessario!) imput “originario” (quello che, in seguito, “avvia” alla medesima dislocazione processuale), il francese Henri Bergson conclude la sua analisi con una netta derivazione spiritualistica, forse poiché eccessivamente “preoccupato” dal contestare ciascuna radicale lettura materialistica (completamente avversa). Ad ogni modo, al di là di qualsiasi “esito” vitalistico(per qualcuno, abbastanza “criticabile”…), resta indubbio il fatto che la vibrazione del “movimento in sé temporale” (la cosiddetta durata) consente davvero di rintracciare una possibile (o meglio potenziale…) strana “totalità processuale”, dentro alle varie “parti” (sezioni), fra di loro in continuo passaggio istantaneo. In un certo senso, quando il bicchiere giunge a contenere l’acqua totalmente zuccherata diventa un oggetto soltanto “statico” (dato che la transizione cronometrica si è evidentemente conclusa). Però, esso non sembra per nulla del tutto nuovamente diverso, nella misura in cui deriva comunque da un’altra “completezza” fenomenologica, già di stampo appena processuale (potenziale).

Anche il celebre porta “simbolista” francese Paul Valery, nel dialogo intitolato Eupalinos, pare cogliere una relazione strettamente “dialettica” fra il movimento dell’acqua ed una sua possibile (statica) chiusura strutturale. Proprio agli inizi della lunga discussione, gli interlocutori convengono sul fatto che le case sapientemente edificate intorno al mare (presso i porti) vogliono quasi cantare. In realtà, le loro grandi pareti bianche paiono dire in modo davvero raro, come se giungessero a “rivelare” un messaggio (incentrato sulla “tecnica di costruzione” interna, nonché sulla precisa “poetica” che, dapprima, aveva mosso il necessario architetto) appena musicale, del tutto immediato (senza i normali, ma pure troppo “delimitanti”, vincoli linguistici). Secondo i dialoganti, le case sono in prevalenza edificate intorno al mare quando la costa forma un golfo naturale, dove le acque riescano ad “ondeggiare” in maniera semplicemente calma. L’architetto può innalzarle solo tramite un raro invasamento divino, nella misura in cui quelle consentono agli uomini di “intravedere” la linea del puro orizzonte, mentre la terra (capace di “stabilizzare” la vita) risulta sospesa sopra una superficie liquida così sterminata che non se ne capisce mai la vera “fine” materiale. Qui, la sensazione di una chiara “pacificazione” esistenziale si spiega con il semplice fatto che l’atmosfera (infinita) si confonde con il “prolungamento” (interminabile) del mondo abitato. In questo senso, dunque, l’architettura del porto “coinvolge” allo stesso modo della grande musica: in chiave immediata, perduti i tradizionali (inevitabili) “pregiudizi” terreni (fuor di metafora, i vari parametri linguistici).

Continuando con il dialogo, Valery aggiunge che Socrate, mentre cammina in riva al mare (dove la sabbia, la brezza o le onde restano semplici e pure) ha i piedi che toccano una spuma molto dolce al tatto, bianca quasi alla stregua di un tiepidissimo latte aereo (allorché i cavalloni si “alzano” al cielo). Lì, anche gli uomini sembrano “ergersi” in modo “statuario” (la sensazione è naturalmente accentuata dal fatto che l’ambientazione esterna rimane del tutto aperta, sulla linea remota del virtuale orizzonte). Però, i piedi sprofondano nella “mobile” sabbia bagnata dalle onde, cosicché le persone procedono in chiave alquanto instabile. Se la riva raffigura una sorta di ambivalente “frontiera” fra la “sicura” terra e l’incerta superficie marina, ancora una volta, ci si sposta quasi senza farlo davvero (per via di una “dialettica” di transizione rallentante, che in qualche misura rievoca il già citato ragionamento di Henri Bergson).

Proprio in questo ambiguo ambiente naturale, Socrate viene a recuperare uno strano oggetto: una pietra, visivamente soltanto informe. In realtà, una volta guardata con attenzione, essa assume delle più enigmatiche sembianze divine, ma nessuno può dubitare del fatto che a “modellarla” sia stata la mera azione (spontaneamente “levigatrice”) del mare. A Valery preme di chiarire che una simile (misteriosa) statua d’acqua viene “formata” unicamente perché la natura “procede” in modo tale da rispettare qualunque indispensabile “condizione” fisica (materiale), di tipo però appena relazionale. Ciò significa che la medesima pietra poteva assumere le misteriose sembianze di un volto divino solo nella misura in cui si realizzavano alcune precise “situazioni” contingenti di “ritrovo” (così, la presenza di una certa roccia dalla grandezza media, esposta ad una data intensità del moto ondoso, per via di una particolare forza del vento, ecc…). A posteriori, tutte queste dettagliate “condizioni” relazionali diventavano dunque assolutamente necessarie (se prese nel loro insieme). Nel caso umano, invece, si nota un vero e proprio libero arbitrio di variegata “azione creatrice”, in maniera tale da saper selezionare i “rapporti” più opportuni, potendo addirittura “rifiutare” quelli d’altro canto giudicati del tutto inutili. Ad esempio, un oratore molto abile riesce a “costruire” un discorso realmente convincente studiando le sole relazioni grammaticali o sintattiche, “trascurando” presto tutte le rimanenti (relative al “rigore” logico, su cui magari un contrapposto “linguista” cercherebbe di soffermarsi, per giunta al massimo grado…).

In tal senso, quando Gino Sabatini Odoardi decide di creare l’opera denominata Souvenir de Lourdes (2001), la netta scelta di rivisitare la tradizionale “simbologia mariana” conduce il giovane artista a “brevettare” una nuova statua d’acqua religiosa. Adesso, una tipica bottiglietta comprata in un santuario assume le sembianze di una “pia” Madonna, che possiede lo “straordinario” potere di trasformare il contenuto del liquido interno, facendolo trapassare in vino. Ancora una volta, lo spettatore più attento registra un duplice gioco “dialettico”. Se da un lato assistiamo al chiaro “miracolo” per cui il corpo di Maria “sale in cielo” (diventando “trasparente”!), dall’altro il “calice” del suo sangue divinizzato resiste alla normale “forza di gravitazione” terrestre (dato che ricompare la “prediletta” inclinazione superficiale, qui ovviamente subito “manomessa”). Ovviamente, la trasfigurazione alcolica si pone in chiave prettamente “rivoluzionaria” (contestatrice dei tradizionali “canoni” religiosi).

Recuperando la precisa analisi estetica avanzata da Paul Valery, affermiamo che la nuova statua di vino (lavorata da Gino) si porge in modo tale da “contraddire” la propria costitutiva condizione naturale. Infatti, si presta ad una lettura già ben dialettica: anziché “rispecchiare” ciascuna diversa norma fisica(con tutte le classiche “relazioni” spazio-temporali del caso!), la sua paradossale “materia anti-gravitazionale” va a “selezionare” solo alcuni rapporti d’immediata “conformazione” strutturale. In un altro senso, la statua di vino consente (ovviamente, in chiave appena simbolica!) di conferire alla medesima(rinnovata!) “natura artistica” la misteriosa “facoltà” di “decidere” su di sé in maniera puramente arbitraria (e dunque, quasi alla stregua umana). Se da un lato la criptica “materia” di stampo eccezionalmente anti-gravitazionale viene comunque ideata da una persona esterna (fortemente “ispirata”!), è certamente giusto affermare che la “resa” diversamente artificiale vuole in prevalenza (in teoria) cambiare le stesse norme “fisiche” (direttamente, dal loro interno!). La statua di vino “sceglie” da sola di contenere una data “quantità obliqua” di liquido, considerato che proprio quella viene decisa (in via del tutto straordinaria!) mediante una “relazione” (adesso, di tipo spaziale…) realmente innaturale. Essa, insomma, evita qui di “soggiacere” (appena in chiave deterministica) a ciascuna “necessaria” contingenza fisica (s’intende: già a valle di ogni banale “rapporto materiale”). L’installazione “rivisitata” da Sabatini Odoardi, perciò, si carica assai presto di notevoli complicazioni dialettiche (in fondo, basta ricordare il ciclo dei Bicchieri 1983-1994, dove i disparati contenitori trasparenti sorreggono continui “accessori anti-gravitazionali”…).

Ad ogni modo, la statua d’acqua (rammentando una sottile “titolazione” ad hoc, estrapolata da un celebre racconto di Fleur Jaeggy) attesta che la creazione naturale (non artificiale) si dà in maniera tale da rispettare ciascun “rapporto” contestuale (di una contingenza, paradossalmente, a posteriori del tutto necessaria!). Comunque, secondo Paul Valery, anche l’uomo può interrogare la superficie del mare, agendo alla stregua di un polipo disposto ad avventarsi sulle tante onde, così da “padroneggiarle” (senza subirle in chiave passiva). Adesso, fuor di metafora, immergersi nella vastità dell’oceano significa imparare a dover soffrire, al fine di ottenere il migliore “approdo” conclusivo (mentre chi si trova da sempre in terra conduce una vita decisamente più “facilitata”). Per conoscere davvero (al massimo grado), bisogna allora agitare se stessi, far “nuotare” la propria anima in un metaforico mare interiore. Forse, così saremo prontamente capaci di trasformarci in una nuova statua d’acqua, abilitata a capire tutte le nostre “singolari” condizioni di vita (evitando, dunque, di tralasciarne qualcuna solo a causa di una mera “urgenza” utilitaristica).

In un certo senso, simbolicamente parlando, essa viene ad “arrestare” (in modo completo) il suo tipico moto ondoso, che per l’appunto qui si è subito “solidificato” (grazie alla continua attività di “modellamento”, scontrandosi addosso alla superficie “dura” della pietra, vero e proprio contenitore disubalterna chiusura). A tal proposito, Gaston Bachelard sosteneva che l’acqua “dormiente” (solo lievemente agitata dal vento) facesse riposare l’anima, infondendole una sana tranquillità di vita. In realtà, quando ne restiamo davvero assopiti, anche la nostra normale “memoria” individuale (capace di conservare i comuni pregiudizi concettuali) si calma nel proprio “abisso” dolcemente originario (prima, insomma, di “immagazzinare” tutte le varie nozioni intellettuali, appena successive). Valga come buon esempio il fatto che noi, quando ammiriamo un “placido” lago, riusciamo molto presto (idealmente) a dimenticarci, rendendo l’anima completamente “obliata” da se stessa. Per Gaston Bachelard, il fondo interiormente originale si avverte perché, con il moto ondoso già “assopito”, l’acqua sembra “confondere” assieme i due grandi “terminali” del problema: l’abisso e la medesima (assai più “alta”!) superficie. Questa, dunque, è la metafora del “liquido dormiente”: si connette in modo diretto con la migliore “introspezione” umana, mentre la stessa facoltà del pensiero perde la sua quotidiana “fluidità” comunicativa (abilitata a “costruire” diversi discorsi concettuali, a seconda delle varie situazioni di vita), per divenire altrettanto interamente “coricata”.

Mediante la reverie (la fantasia) dell’acqua cheta, il singolo individuo allora aderisce davvero (con il massimo risultato) al mondo. In effetti, quando la memoria “intuisce” (addormentandosi) che ciascun diverso pregiudizio culturale (in grado di “sostenere” in maniera superficiale, sulla “base” intellettuale della vita) ha una propria origine “mossa”, “instabile” in chiave appena oceanica (ora, eccezionalmente vasta), alla fine l’anima non resta più banalmente “divisa” dalla sua realtà esterna. Aderire al mondo significa quindi esistere in modo totale, ma possiamo farlo solo se comprendiamo che qualunque caratteristico “innalzamento” concettuale dondola sopra la profonda “interiorità” di ognuno, laddove una simile “enormità” di oscura estensione personale si “connota” in via del tutto universale. Di nuovo, quando la calma superficie del lago (o del mare, in chiave ancora più intensamente instabile!) si “confonde” con il suo immediato “abisso” inferiore, la reverie di stampo “ambientale” consente di far naufragare l’anima nell’intera realtà esterna.

Il medesimo Gino Sabatini Odoardi, mentre realizza la fortunata istallazione denominata Perdersi dentro un bicchiere d’acqua (2001), intuisce un simile “problema estetico”. In questo caso, la sua suggestiva opera presenta dodici pannelli bianchi (come di consueto, esposti sul muro), ognuno dei quali possiede una piccola mensola. Di nuovo, tutte le costruzioni hanno i caratteristici “bicchieri di vetro artistico”, che qui servono a contenere acqua di mare “solidificata” (in gesso), “complicata” in modo ulteriore. Infatti, dentro ai dodici diversi “raccoglitori” di vetro scoviamo altrettante cartine geografiche, la cui misteriosa presenza allude al grande problema “filosofico” di riuscire a superare i “classici” luoghi comuni culturali. Qui, la strana “mappa” viene a raffigurare (simbolicamente parlando) la più “vera” condizione esistenziale umana, per la quale vivere è “bagnarsi di continue difficoltà” (recuperando un’affermazione cara allo stesso Gino), dovendo “agire” persi dentro ad un reale oceano senza soluzioni esaustive.

Fuor di metafora, recuperando la bella analisi effettuata dal francese Bachelard, possiamo dire che una simile (interessante) creazione artistica consente di aderire ad un Mondo. In verità, lo spettatore viene idealmente a “nutrirsi” di acqua, un elemento naturale assolutamente essenziale (proprio al fine di vivere!), il quale dal canto suo risulta di certo installato sopra latradizionale parete di esposizione (e dunque, attaccandosi a quella!), laddove un tale “contatto” riguarda la Terra (intesa nell’accezione “geografica” del termine!). Perciò, ci sembra che il lavoro creato da Gino cerchi di “connettere” assieme la singola individualità umana con la più intera (o meglio “universale”) realtà esterna. Anche qui, insomma, si tratta di far aderire al Mondo: mentre la “superficie acquosa” del bicchiere è internamente stabile (in completa linea “orizzontale”), l’anima di qualsivoglia spettatore (a sua volta contenuto, benché dalla mera “partecipazione” percettiva con l’opera!) si calma (ora, seguendo Bachelard…), sino a “naufragare” da se stessa (visto che “si perdono” tutte le quotidiane rotte pregiudiziali culturali).

Alla fine, la grande “mappa” di ogni ingenuo significato direzionale abitudinario (convenzionale) “dondola” dentro ad un vero e proprio oceano di inesauribili (sempre nuove) domande esistenziali. Evidentemente, quando la “cartina geografica”, che di norma “delimita” tutti i normali pregiudizi culturali, risulta già totalmente “confusa”, l’immenso Mondo esterno resta realmente tale (ossia, essenzialmente non più “distinguibile”, rispetto a noi!), nella misura in cui facciamo dapprima naufragare bene i nostri tradizionali “filtri divisori” intellettuali). Sabatini Odoardi chiarisce che questa complessa navigazione esistenziale rimane alquanto “rischiosa” (considerata la sua venatura sempre irrisolta), mentre la medesima criptica gravitazione oceanica si pone in chiave prettamente seria. In fondo, la forma espressamente “squadrata” che definisce i vari pannelli si “percepisce” in modo abbastanza severo, come se essi “volessero” (simbolicamente parlando!) lapidare qualunque momentaneo “approdo” vitale (s’intende: ogni specifica “risposta” concettuale).

Secondo Bachelard, dunque, buttarsi in acqua è riempire una coppa del nulla, nella misura in cui chi decide di immergersi nel liquido “placidamente mosso” abbraccia, virtualmente, tutto il mondo (in maniera tale da non “distinguere” mai niente di particolare, dentro di quello). Quando, dopo il piacevole tuffo, sceglieva di tornare a riva, Melusina (ossia, l’eroina creata dallo scrittore Audiberti) rimaneva comunque ancora un po’ “bagnata”: perciò, capendo la lettura fenomenologica avanzata dal filosofo transalpino, lei veniva a possedere una certa energia acquosa. La protagonista esisteva in maniera “liquida”, si accasava in “superficie” mediante una “forza vitale” curiosamente solo instabile. In sostanza, Melusina tornava a riva in modo tale da aderire davvero “totalmente” con il proprio mondo, siccome le poche particelle d’acqua (rimaste sulla pelle) si “confondevano” sia con l’aria, sia con la nuova “terra” di rapido “sostenimento” (ad esempio, gocciolando dall’alto). Per Bachelard, una volta raggiunta la superficie, lei sembrava bagnata solo al fine di poter “volare nel cielo immenso”.

In un altro senso, aderire al mondo in modo davvero “totale” significa pure avere la chance di “sfumare” un’ulteriore scialba differenza (da una prospettiva sempre intellettuale) sussistente fra la mera materia “potenziale” e la completa forma “conclusiva”. Massimo Carboni, docente di Estetica presso l’Accademia delle Belle Arti fiorentina, ricorda che Burri soleva strizzare o strappare la tela per impedirle di poter “servire” a qualcosa (in maniera tale che non fosse più “usata” per semplici scopi tecnici, “imposti” da un “intervento” antropologico tanto esteriore quanto opportunistico). In chiave abbastanza ambigua, la materia raggiungeva la propria “autentica” essenzialità unicamente quando restava interamente informe, perduto ciascun “indiretto” proposito utilitaristico. A ragione, essa pare “annichilirsi” del tutto nella misura in cui (paradossalmente) si fa usabile, e dunque non tanto al momento di rimanere strappata o strizzata (allorché la “nullità” che porta con sé le risulta invece puramente necessaria…). Per il suddetto motivo, quando la materia resta informe, il “soggetto” che vuole conoscerla bene in realtà manca di trovarsi interamente “separato” da quella. Anzi, egli deve ammettere che una data finalità concettuale (qui, da lui stesso opportunamente postulata) non si “offre”. La materia strappata o strizzata possiede una “potenzialità interna” sempre in fieri. Di certo, il suo proposito “essenziale” ci sembra “presente” (si noti, ad esempio, la chiara situazione per cui i “margini” della tela “manomessa” vengono trattati solo mediante un’estrema precisione di lavorazione, tutt’altro che casuale!) ma la “forma” (per l’uomo, inutilizzabile…) già si confonde (nel proprio “atto” di resa esauriente!) col medesimo movimento, di grande trasfigurazione complessiva. Adesso, tornano subito in mente le precedenti analisi di Bergson (in merito alla dynamis ambivalente che la “durata temporale” disloca nello spazio).

D’altro canto, anche Gino Sabatini Odoardi (ormai, a partire dal 2005) ha cominciato a lavorare sulla fuoriuscita informe della materia. In questo caso, tutte le ultime opere propongono una lunga serie di oggetti comuni, a mano a mano ravvicinati fra di loro (sopra lo stesso pannello superficiale) tramite accostamenti “figurativi” abbastanza surrealistici (così, i crocifissi vengono messi accanto alle pipe, i microscopi stanno con i cavi elettrici, i rubinetti si trovano assieme agli “anfibi”, ecc…). Il ciclo di produzioni (denominato Termoformature) vuole dunque fondere disparate “cose” d’uso quotidiano, sino a farle uscire dalla più “primigenia” (almeno, in chiave simbolicamente virtuale) base trasfigurante. Evidentemente, l’artista desidera proprio mostrare la potenzialità sempre in fieri (riprendendo la dettagliata analisi di Carboni) che si trova dentro ad una “materia” solo molto particolare, dal momento che essa ha perduto la sua “esterna” (non essenziale) utilità antropologica. Per questa ragione, la scelta di presentare un più allusivo processo di trasformazione finale (grazie alla grande “fusione” strutturale) possiede un senso alquanto (paradossalmente) “naturalistico”. Del resto, la critica alla banale “fruizione tecnologica” già si capisce a dovere tramite la semplicissima constatazione che gli oggetti vengono assemblati con degli accostamenti binari puramente surreali. Però, va opportunamente specificato che la medesima configurazione finale sembra recuperare un tema ampiamente “studiato” da Gino Sabatini Odoardi: quello del cosiddetto involucro plastificato (peraltro, caratteristico di alcune importanti opere passate).

Inoltre, è molto suggestivo ricordare che una tale ambiguità di trasformazione può risultare di più immediata “comprensione” fenomenologica (almeno, a livello appena allusivo) tramite il ricorso ad un materiale di composizione artistica assai “mirato”. In architettura, come spiega Paul Scheerbart, anche il vetro consente di “rifiutare” un eccessivo tecnicismo di “costruzione pragmatica”, nella misura in cui costituisce un “prodotto” a lavorazione già povera (in grado di “alleggerire” la tipica pesantezza strutturale data dal cemento). Il suo ripetuto utilizzo permette di assorbire la luce, in maniera tale da farla “riflettere” (così da limare la grande diversità, in merito alla normale rifrazione cromatica, sussistente fra le varie pareti nei palazzi e la contemporanea unica irradiazione solare). Il vetro non lascia trasparire qualcosa, dal momento che è da se stesso “principio” di generale trasmissione luminosa (di stampo ovviamente “speculare”).

Benjamin afferma che esso simboleggia degnamente un materiale appena freddo, “sobrio” (in pratica, senz’aura). La sua venatura intrinsecamente povera evita di accettare la contrapposta (già molto classicistica) interiorizzazione borghese, allorché i vecchi palazzi (edificati con la pietra, ma ovviamente dalle sole “persone facoltose”…) parevano dall’esterno completamente “inavvicinabili” (per via della ricercata pesantezza strutturale, a margine di un numero realmente basso di finestre). Questo materiale riesce a far trapassare la luce esteriore dentro alle stesse case, permettendo di aderire a tutto il mondo. Di nuovo, torna alla memoria il precedente ragionamento di Bachelard, mentre lo stesso Scheerbart sostiene che l’acqua si addica all’architettura di vetro, dal momento che anch’essa consente di “specchiarsi”. E’ interessante notare che, per il teorico tedesco, bisogna edificare palazzi dai piani a forma piramidale, in modo tale da irradiare presto l’intera costruzione trasparente (laddove le avverse facciate, amate dalla tradizione classicistica, portavano ad oscurare gran parte del caseggiato). Comunque, secondo l’analisi di Scheerbart l’acqua ed il vetro rimangono quasi inseparabili fra di loro, a causa dei “comuni” immediati riflessi (abilitati ad aderire presso tutto il mondo esteriore).

A tal proposito, Ernesto Francalanci (docente all’Università di Venezia) afferma che una simile “coincidenza dialettica” può giustamente riguardare anche il più semplice velato, benché lui lo studi unicamente in chiave materiale (non parla mai, infatti, di una strana liquidità paradossalmente cristallina). In sostanza, esso simboleggia un concetto espressamente postmoderno, nella misura in cui sembra di continuo “confondere” ciascun normale valore convenzionale. Ad ogni modo, al di là della mera “metafora sociologica”, il velato pare farci dubitare, dal momento che copre senza mai racchiudere del tutto (in chiave alquanto dialettica). Secondo Francalanci, questo sembra di certo assumere una buona “qualifica protettiva” (quando, insomma, viene a nascondere per “preservare” qualcosa di molto intimo). Però, anche in un simile caso risulterebbe “pensabile” in maniera puramente ambivalente (ciò che si cela rimane tale solo perché esiste un “eventuale” usurpatore).

Da questo punto di vista, quando Gino Sabatini Odoardi conclude la sua installazione chiamata Senza Titolo (2002), all’evidente “velato” artistico si conferisce un senso giocoforza del tutto dialettico. L’opera espone ventuno pannelli bianchi (a forma squadrata), disposti addosso alla “consueta” parete murale, adesso mediante tre diverse (ma regolari) successioni in fila. Ognuno di quelli continua a sorreggere il tipico bicchiere di vetro, anche se qui la “vecchia” mensola è interamente scomparsa. In realtà, tutti i piccoli contenitori risultano “attaccati” al loro singolo basamento “verticale” solo grazie ad una tesa pellicola, di plastica trasparente. Inoltre, si nota che il quinto bicchiere facente parte della serie più bassa si distacca ampiamente dagli altri, in modo tale da perdere la propria “regolarità” strutturale (s’intende: di “normale” successione matematica). Fuor di metafora, il contenitore “disordinato” spiega la condizione subito essenzialmente “emarginata” di chi tenta l’uscita da un gruppo già ben “consolidato”. Qui, esso viene riempito d’acqua: la sua immediata “trasparenza” concettuale si contrappone alla più intensa vitalità biologica, “dichiarata” invece da tutti i restanti venti bicchieri, i quali in effetti si “bagnano” di un “gustoso” vino rosso, di sicuro maggiormente persuasivo…

In questo caso, sembra quasi che la “scelta” (allusiva!) di “contestare” la comune mentalità del tempo (cui rimanda la semplice simbologia di una possibile uscita disordinata dal gruppo) porti con sé la necessaria “perdita” di una reale passionalità esistenziale. In un certo senso, dunque, il velato (adesso, manifestato mediante la pellicola di plastica) copre ciascun “bicchiere” della “vita pregiudiziale umana”. In linea generale, è come se noi dovessimo sempre (inevitabilmente) bere da “qualcuno” che, proprio nel momento in cui giunge a nutrirci (usando una simbologia, insomma, dalle precise sfaccettature “primarie”!), in realtà si limita a “condizionarci” (quasi inconsciamente). Quando Gino sceglie di “attaccare” i tanti bicchieri, questi paiono allora imbavagliati fra di loro. Per la prospettiva estetica avallata dal giovane artista, una simile dimensione poco “autentica” (a propugnare un ineluttabile assorbimento culturale, da sempre “trattenuto”, dato che gli individui si trovano essenzialmente “agganciati” per volontà e forza altrui, anziché personale…) riguarda la medesima “esistenza” (intensamente passionale).

La scelta di “rivoluzionare” i banali pregiudizi sociali, se da un lato “attenua” ciascun “naturale” impulso di stampo appena materialistico (legato, dunque, al desiderio di “possedere” le cose, per un mero godimento transitorio della vita), consente però di “agire” sotto una migliore trasparenza concettuale. In realtà, la decisione di uscire dal gruppo permette ai contestatori di “purificarsi” in chiave interiore: quando uno preferisce di bere “acqua”, si “nutre” di un elemento che è del tutto primario, prettamente essenziale al fine di “esistere” (mentre il vino, dal canto suo, non risulta per nulla “indispensabile”…). Così, il vero “rivoluzionario” comprende che bisogna vivere “ingerendo” dei concetti assolutamente elementari (“trasparenti”), che riescano a “velare” realmente in maniera “protettiva” (in modo tale da “sostenere” senza per questo limitarsi a condizionare per meri “scopi” utilitaristici, o passivamente materialistici…). Anche se il suddetto involucro “pregiudiziale” non è mai interamente “distaccabile”, conserviamo comunque la grande chance di esistere (“agganciati” a qualunque parete di convenzioni sociali, solo rigidamente strutturali) in chiave almeno più “pura”.

Per un simile motivo, l’installazione chiamata Memorie di Marguerite Yourcenar (1998) definisce la ripetuta copertura di scialbo “consolidamento intellettuale” grazie ad alcuni sacchetti di plastica, adesso quasi “farmaceutici”. Qui, all’inverso, i tre involucri per così dire almeno più puri assumono le sembianze “alcoliche” (sono, infatti, quelli relativi al “vino rosso”…). Ciononostante, anche se l’opera sembra “criticare” la banalità della vita convenzionale tramite la “sanguigna” (s’intende: intuita la venatura “ospedaliera” delle sacche…) esistenza passionale (di contro alla precedente “acqua cheta”, già cara a Gaston Bachelard), lo stesso ardore individuale poi risulta comunque “immobilizzato” (senza postulare alcuna “conclusione” solo idealmente consolatoria).

Per Francalanci, il velato assurge a chiara metafora in senso lato “artistica”. Basta considerare che l’autentico fenomeno estetico deve riuscire ad illudere, a “significare” in modo appena allusivo (per una fruizione non troppo banalmente “denotativa”), a far trapassare un messaggio (che, insomma, dica senza mai dire del tutto). Per questi motivi, una simile procedura sa “contrastare” la tipica egemonia tecnica della nostra società postmoderna (laddove gli ingenui “parametri culturali” si costruiscono assieme in maniera tale da essere ri-velati con “esagerazione”, andando quindi ad annullare, per sempre, il proprio necessario avverso rimando nascondente).

Così, quando Gino Sabatini Odoardi sceglie di “bloccare” in completo sottovuoto (grazie ad un utile sacchetto di plastica) alcuni piccoli oggetti di risaputa “funzione quotidiana” (le scarpe, i pantaloni, ecc…), ci sembra davvero che egli segua un preciso “disegno estetico”. In sostanza, con la vecchia installazione denominata Nudo (ormai, risalente al 1997), la più fondamentale tecnologia pragmatistica (simboleggiata da certe banali “cose comuni”) viene “svelata” (spogliata) per ciò che da sempre fa: esagerarsi, annullare (“soffocandola”!) la propria costitutiva venatura già illusoria (o meglio, solo nascondente). Quando il sacchetto di plastica contiene gli oggetti di sicuro servizio quotidiano in modo appena “sottovuoto”, attesta subito che quelli, in verità, sono “usati” per scopi meramente bloccati, “chiusi” in se stessi al fine di rendersi utilmente fruibili. Secondo l’artista, l’unica chance di poterli “liberare” si attua mettendo in mostra proprio la loro più essenziale dimensione “nascondente”. Con l’astuta scelta di farne vedere il medesimo “involucro bloccante”, l’osservatore realmente acuto si accorge che questo, in verità, si limita a “velare” la condizione da sempre (intrinsecamente) “ricoperta” di ciascuna sottostante “tecnica culturale” (fuor di metafora, saldamente “protetta” dai normali sacchetti pregiudiziali). Per Gino, la messa in mostra dei più quotidiani oggetti pragmatici va dunque esposta per ciò che accade sul serio: un continuo “soffocamento” del tutto “mortificante” (s’intende: in merito alla contrapposta vita passionale). Esso resta quindi ostentato in chiave puramente memoriale (come se le varie “cose” risultassero da se stesse già internamente “annichilite”, ben al di là della loro concreta esistenza “storica”…).

Il velato, dunque, consente di “adombrare” qualunque oggetto materiale che si porta dietro di sé. Mario Perniola, noto filosofo italiano, ha sostenuto una tesi similare, densa peraltro di notevoli applicazioni ad impianto rigorosamente estetico. Per lui, il vero fenomeno artistico s’accompagna sempre ad una coeva ombra essenziale. In un certo senso, essa viene idealmente a rappresentare proprio la dimensione “dialettica” interna a ciascun autentico “prodotto estetico”, per cui questo (almeno, in epoca postmoderna…) non deve né avanzare “pretese” di genere aulico (ponendosi al di sopra dei comuni oggetti tecnici), né limitarsi a criticare (benché in chiave ironica) la mera società mediatica contemporanea. Giocando fra le due opposte (ma ingenue) astrattezze pregiudiziali, il vero fenomeno artistico capisce che la prima sbagliata “rivendicazione concettuale” resta soltanto il necessario contraltare “ombroso” dell’altra, e viceversa. Per i suddetti buoni motivi, l’opera d’arte massimamente riuscita sembra dunque dire in maniera appena velata, pena l’immediata perdita del proprio status di prodotto eccezionalmente “simbolico”, allusivo, mai puramente “denotativo” (con ogni scialba affermazione “pregiudiziale” del caso…).

Evidentemente, quando Gino arriva a realizzare la sua fortunata scala dai pioli surreali (grazie alla vecchia opera Senza Titolo, del 1995), l’intera composizione artistica tenta di dichiarare senza per questo “sostenere” del tutto. La nostra dettagliata “sottolineatura critica” possiede un senso alquanto mirato, nella misura in cui (in chiave misteriosamente ambigua!), al di là delle due normali aste verticali (qui, realmente presenti…), ogni regolare “pedata” è in verità subito vana. Una tale installazione (assai “confondente”, poiché giocata su alcune immediate illusioni ottiche) manca così di sorreggere il chiaro “accesso superiore”. In un cero senso, qui, affermare una tesi artistica già significa sostenerla con forza, ma in modo simbolicamente “vano” (valutando a dovere ogni falso piolo). Recuperando la precedente analisi, offerta da Mario Perniola, possiamo aggiungere che la più autentica “ascensione al Sapere” concerne, in prevalenza, una “fila” di ordinati salti (passaggi) concettuali appena “adombrati”. Di nuovo, la qualità essenzialmente simbolica del vero fenomeno estetico si spiega con la sua caratteristica immediata di dire in maniera solo velata (come se la grande “luce conoscitiva” proiettasse unicamente in chiave intermittente).

   Così, ci sentiamo presto autorizzati a concludere che, nella significativa poetica artistica avanzata da Gino, tutti gli inevitabili “concetti pregiudiziali” vanno bevuti in un modo molto più suggestivo: ossia, all’ombra di una “attuazione finale” appena potenziale (mai esaudita) e poi “trasparente” (perdutamente “ricoperta” da continui “involucri” già di ambigua sapienza dialettica).

 

Bassano del Grappa (Vi), Dicembre 2006

 

Analisi Estetica sul lavoro di Gino Sabatini Odoardi, Bassano del Grappa (Vi), 24 Dicembre 2006.