SIBILLA PANERAI

"LA POETICA DELLE PIEGHE E DEGLI OGGETTI NELLE TERMOFORMATURE DI GINO SABATINI ODOARDI"

 

Gino Sabatini Odoardi concepisce i suoi lavori a partire dal disegno, un tratto nervoso e dinamico che smuove la superficie e dà una vita propria ai suoi soggetti, che da sempre indagano contenuto e contenitore, attraverso la forma del bicchiere e successivamente della piega. Lo fa attraverso una sensibilità estetica altissima, che coniuga una fascinazione classica alla ricerca dei materiali più innovativi, come il polistirene mediante il processo della termoformatura, un procedimento industriale col quale crea sculture e installazioni bianchissime e perfette. E’ attratto dalle intersezioni e dagli spazi fisici e temporali che si annidano nel silenzio liquido di un bicchiere o nel buio anfratto di una piega: “Non so spiegare come certe forme ti possono sedurre fino alla nausea. Avevo 14 anni quando vidi la riproduzione di un’opera di Salvador Dalì “Natura morta che vive” del 1956. Fu l’intuizione della rivelazione. Nel quadro del genio spagnolo un bicchiere inclinato, sospeso in area, conserva un liquido in accordo con le leggi gravitazionali. E’ stato solo un mio ribaltamento visivo a dargli una nuova connotazione anti-gravitazionale. (…) Resta il fatto che da vent’anni sono investito dalle avances di questo comune bicchiere da cantina. Forse perché il bicchiere oltre ad avere una forma, ne conserva un’altra: il vuoto. Questo volume trasparente, apparentemente svuotato, ha la proprietà di ospitare sempre nuove condizioni. Ed è a questo spazio sinuoso ed elegante che ho dato in custodia vino, gesso cristallizzato, cartine oceanografiche, inchiostro e quant’altro per dire ciò che penso ma soprattutto ciò che non dico.” [1], spiega l’artista del tema del bicchiere, che Angela Vettese ha definito “la messa in scena di un’ossessione” (si pensi all’installazione Si beve tutto ciò che si scrive del 2002). 

Ha la forma di un bicchiere rovesciato anche il suo studio, una torre medievale del XIV secolo ad Alanno, in Abruzzo, un luogo isolato a pianta tonda, dove Sabatini Odoardi “si nasconde a vista” nel silenzio del paesaggio: “Non avere riferimenti ad angolo retto nella stanza mi rassicura molto. Tutto lì dentro è inizio/fine. Mi ci sento come una lancetta dei secondi, orfana in solitudine delle ore e dei minuti” [2]. 

Ha iniziato da bambino, dipingendo quadri surrealisti al fianco dell’amico pittore Antonio Capone, per poi passare a togliere i chiodi dalle tele, come vedeva fare al padre tappezziere, per accartocciarle “come fossero fogli di poesie sbagliate”. Con queste tele piegate agli inizi degli anni novanta sperimenta la tecnica del sottovuoto, realizzando opere private d’aria e rese eterne, come gli abiti di Nudo (1997): “Un indumento si traduceva in una reliquia, nella consumazione e fragranza di un’antichità e una sacralità consolidate”, scriveva Fabio Mauri, di cui Sabatini Odoardi è stato assistente dal 1995 al 2002 [3]. 

Ma è dal 2005 con l’intuizione della termoformatura, un processo industriale utilizzato nel packaging per proteggere i prodotti (che consiste in una copertura in plastica modellata a caldo che aderisce alle forme), che Sabatini Odoardi si distingue come artista unico nel panorama italiano e internazionale. Gli oggetti vengono sottratti al reale, perdendo la loro funzione per divenire eterni: “Questo straniamento li rende muti fantasmi di se stessi, annullando la loro funzione pratica all’interno di una enigmatica sospensione spazio-temporale” [4]. 

Sabatini Odoardi blocca la produzione industriale per poter realizzare le sue opere e ne inverte il processo perché, invece di creare una matrice per molteplici esemplari, il suo tessuto di plastica isola e chiude ogni possibilità di riproduzione, imprigionando la materia per sempre. È un modo di sospenderne il tempo, ibernandola in una seconda vita, puramente estetica, che inizia là dove finisce l’utilizzo consueto delle cose. La termoformatura “ha un meccanismo dal fascino irreversibile. Ha la grande proprietà di “freddare” l’oggetto, dandogli quella temporanea possibilità dopo l’inevitabile” [5]. È il pensiero del postumo, che innesca il tentativo di sottrarre gli oggetti a un termine che sappiamo essere certo, tramutato nel bianco colore dell’annullamento: “In questo senso il bianco è il colore dell’Est dove sorge il sole simboleggiando così l’inizio di tutto. Allo stesso modo il bianco può essere inteso come assenza di colori. In questo senso il bianco è il colore dell’Ovest dove muore il sole simboleggiando così la fine di tutto. Il bianco quindi essendo l’inizio e la fine è il colore dell’assoluto e pertanto simboleggia un processo di rinascita e trasformazione” [6]. Ma per fare questo Sabatini Odoardi deve dosare sapientemente l’aria da togliere, in un procedimento che, riscaldando la plastica per modellarla, comporta l’inalazione di fumi ad alte temperature. Questo intervento manuale permette di creare le impalpabili pieghe dell’installazione ambientale all’Eremo di San Venanzio (Senza titolo, 2016), la spettacolare Senza titolo con sedie (2016) e i ventiquattro panneggi sospesi della mostra Dispiegamenti (Pescara 2016): “Trovo che la metafora della “piega” costituisca un'intrigante espressione di “accordi” come a ragione sosteneva Deleuze. La piega si replica all’infinito nel suo illimitato riprodursi, stratificarsi, comporsi in una nuova armonia. Esso cela tracce e segni che coincidono con gli elementi essenziali della percezione, quali luce/ombra, bianco/nero, interno/esterno. Panneggi che nelle loro infinite combinazioni, raccontano gli innumerevoli risvolti della vita, dove niente è chiaro e rivelato”, spiega Sabatini Odoardi [7].

Per queste ragioni Fabio Mauri riconosce in lui: “un pittore di concezione molto limpida. La sua cultura poetica non è minimamente confusa. Scopro, di seguito, una vicinanza tra i materiali linguistici, le materie scelte, e l’idea che le associa. (…) Il gesto è semplice, l’effetto e la meraviglia limpidi. L’immaginazione si fa subito percettivamente autorevole. L’inverosimile vi abita quale norma abituale dell’immaginazione. L’insidia è convincente per il suo garbato ordine, nella docilità con cui la materia fa a meno della propria legge. Gino usa la modernità, cioè un linguaggio contemporaneo, per comporre una sua individuabile fisionomica lingua” [8].

 

Pescara,  15 novembre 2019

 

Note:

[1] S. Vedovotto, Intervista a Gino Sabatini Odoardi, in Controindicazioni, a cura di S. Lux e D. Scudero, ed. Lithos, Roma, 2003, p. 43.

[2] A. Rorro, Conversazione con Gino Sabatini Odoardi, in Gino Sabatini Odoardi. Postumo al nulla, a cura di F. Poli e M. Carboni, cat. mostra Torre Bruciata, Teramo, 22 maggio-15 giugno 2010, Logos, Modena 2010, p. 29.

[3] F. Mauri, La sostituzione di una scena insostituibile, cit. Roma 2003, p. 29.

[4] F. Poli, Il silenzio assordante degli oggetti, cit., Modena 2010, p. 11. 

[5] M. Savarese, Conversazione con Gino Sabatini Odoardi, 2015; https://www.ginosabatiniodoardi.com/bio/interviste-interviews/maria-savarese/

[6] R. Quattrone, La bellezza dell’attimo, in «Wall Street International Magazine» del 31 agosto 2018; https://wsimag.com/it/arte/40611-la-bellezza-dellattimo

[7] M. Savarese, cit., 2015; https://www.ginosabatiniodoardi.com/bio/interviste-interviews/maria-savarese/

[8] F. Mauri, Gino Sabatini Odoardi, in «Art e Tra», n. 9, luglio 1998, ed. MUSPAC Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea, L’aquila 1998, pp. 4-5; cfr. cit. Modena 2010, p. 201.

 

 

* Testo critico pubblicato sulla rivista scientifico-culturale d'arte contemporanea "Titolo" Quaderni. n. 19 (80), Inverno/Primavera 2020. Rubbettino Editore, Perugia, gennaio 2020, pp. - 40 - 42.