SABRINA VEDOVOTTO

"SENZA TITOLO"

 

Una scala. Dei pioli. Un fascio di luce.

Sono questi i tre elementi dell’opera di Gino Sabatini Odoardi, Senza Titolo, che ci appaiono subito alla vista. Elementi molto comuni, noti, riconoscibili, e tranquillizzanti.

Ad una prima lettura del lavoro, dunque, l’immagine completa non è altro che una dimensione familiare, conosciuta. Se però l’attenzione si focalizza maggiormente, e ci stabiliamo su di un piano di ricezione diversa, se oltrepassiamo il livello zero di comprensione, ci troviamo di fronte un’immagine destabilizzante, straniante. Sempre una scala, sempre dei pioli, sempre una luce. Ma c’è qualcosa di diverso, di nuovo, di non ri-conoscibile. Il nostro occhio scrutatore pone allora l’attenzione verso la scala, una vecchia scala, di quelle che una volta si usavano nei granai di campagna, e ci si accorge di una sfumatura di tipo pratico, ma anche estetico, che porta lo spettatore verso un totale abbandono nel non-conosciuto. La scala possiede i pioli, ma in realtà i pioli non ci sono, perlomeno non tutti. Ed è qui che il terzo protagonista di questa suggestiva installazione entra in gioco. La luce infatti è la vera protagonista, colei che, permanendo con la sua fissità, ci fa vedere cose che non esistono. Il limite estremo tra il visibile e il non visibile non ci è dato saperlo, conoscerlo; sta a noi cercarlo, nell’installazione, ma soprattutto in noi stessi. Come in un infinito gioco delle parti, non capiamo più quale sia la realtà, quali gli oggetti reali, quelli non reali, e ancora quelli creati dalla nostra mente. E’ una sfida all’impossibile quella che si compie con quest’opera, tesa a suggerirci le tipiche allegorie dell’oggetto scala, che però in un brevissimo momento vengono scardinate dal resto delle sensazioni, emozioni, che provengono dal gioco di luci.

Quale allora questo limite del visibile e del non visibile, del dato oggettivo e di quello soggettivo? La scala ci conduce certamente in un mondo altro, in una meta realtà della quale non sappiamo niente, che non riconosciamo appartenere al nostro background. E’ una sfida abbiamo detto, ma non verso qualcuno, piuttosto verso qualcosa alla quale ci possiamo avvicinare solo con la mente pura, scevra di altre indicazioni di tipo soggettivo. Sta a noi, posti di fronte a questo oggetto, stabilire il significato evocato, la sensazione provocata, la messa a fuoco dell’elemento cardine. Noi abbiamo altre sollecitazioni se non quelle ricercate in noi stessi, attraverso una sensibilità che è di pochi.

Ed è proprio in noi stessi che la scala può assumere i connotati di una via di fuga, o piuttosto un tentativo di fuga, una ricerca, anche esasperata di evasione; a volte, anche di evasione totale, l’unica scappatoia che ci è concessa, e che solamente noi abbiamo il diritto di scegliere, consci però dell’impossibilità di tornare indietro. Una possibilità di conoscere un mondo altro, nel quale forse adattarci pienamente e sceglierlo come una realtà nella quale permanere. Un’ultima via di scampo, che non potremo ripercorrere a ritroso.

 

Roma, Novembre 2001

 

* Testo critico riportato sulla pubblicazione "Senza Titolo" (formato pieghevole), ed. Futuro, Roma, 2001, p. 2 in occasione della mostra personale “Senza Titolo” a cura di Sabrina Vedovotto (10 Dicembre 2001), Spazio-abitazione di Ludovico Pratesi - Roma.