MARTINA CAVALLARIN

"SENZA TITOLO IN WIRELESS 2012"

 

L’arte contemporanea  è una domanda aperta sul mondo. Uno spazio di riflessione, un meccanismo che attiva un pensiero e genera una crescita. L’arte contemporanea  appare, o è, spesso provocatoria perché l’artista capta i segni  che  già  trova  nel  mondo e li riadatta attraverso la propria rifrazione restituendoli attraverso la nuova visione dell’opera. Ma quei segni ci sono già. Se la contemporaneità è sempre in stato di allerta e di crisi, questa contingenza storica che ci troviamo ad attraversare lo è ancora di più. Guerre economiche, guerre di religione, integralismi, la tecnologia che scardina la crescita antropologica e sociale, la solitudine dei social, la finta percezione della realtà aumentata, il piacere  a  tutti  i  costi,  la  scienza  che  pone l’uomo al suo servizio e non viceversa come dovrebbe essere.

 

Quando ci siamo trovate, come Whitelight, a ideare il progetto assieme all’artista Gino Sabatini Odoardi, abbiamo intuito di poter trovare, in quel luogo e con nuovi compagni di viaggio, delle criticità. L’esposizione d’arte contemporanea non è pura contemplazione, ma un laboratorio di esperienze, un luogo in cui sperimentare e vivere, uno spazio di condivisione e dialogo. La mostra è una drammaturgia di cui occorre comprendere il peso politico e l’indagine sociale. Alla luce di tali considerazioni, quando abbiamo pensato il lavoro degli “Inginocchiatoi” (Senza titolo in wireless) posizionato nel salone di Viale Lunigiana del Centro Copernico, una sala affacciata sulla città ed esterna al perimetro espositivo del Art Basement di Whitelight, abbiamo sentito la necessità di dover usare l’opera come dispositivo aperto di studio, come laboratorio di realizzazione di un dialogo critico con lo spettatore. L’arte contemporanea è comunicazione e apertura alla domanda, organismo destabilizzante, curioso, non assuefatto, non conformato. L’urgenza è quella di potenziare una crescita comune e detenendo l’arte un ruolo sociale, deve saperlo interpretare non solo attraverso la ricerca e l’ardito studio dell’artista, sempre solitario avendo il coraggio di “abbandonare la costa” come direbbe André Gide, ma anche attraverso un corretto modo di rapportarsi con la collettività.

 

Penetrare in questa stanza luminosa ci proietta in una visione decentrata: sala di ricevimento e atmosfera di festa o luogo di culto tra inginocchiatoi bianchissimi e senso della perdita. Nella messa a fuoco dello sguardo il labirinto si fa mentale perché i dodici elementi - Senza titolo in wireless - sono sparpagliati e scompaginati  e sopra di essi un oggetto che si fonde alla struttura lignea attraverso una termoformatura in polistirene si rivela essere la copia di un gamepad playstation. Gino Sabatini Odoardi ci conduce attraverso l’artificio plastico tecnologicamente avanzato della contraffazione dei contenuti reso attraverso la forma, in un inganno perpetrato dalla ricontestualizzazione delle condizioni d’esistenza degli oggetti simbolo e degli oggetti giocattolo.  Incrementata  dalla  dislocazione  spaziale  di  un  luogo  asettico  e  imprevisto,  la  messa  in  discussione  di  temi indiscutibili  raggiunge  il  limite  estremo  tra  elasticità  e  punto  di  rottura.  L’opera  di  Sabatini  Odoardi  si  rapporta  con  la mistificazione e con un innesto di possibilità che la società civile non contempla e il potere rifugge perché incanalare in infinite sfaccettature alternative la sacralità immobile della religione e della secolare tradizione che si trascina appresso, rappresenta uno scardinare le certezze e riabilitare il possibile.

Da sempre sul confine instabile tra sacro e ludico, la ricerca di Gino Sabatini Odoardi squaderna ideologie e attiva minuziosi programmi alterati, misurandosi con un’opera sempre raffinata e preziosa nella quale la fluidità estetica è inseparabile da un’interrogazione sull’autonomia dell’opera stessa. In un atteggiamento di programmata decostruzione delle geografie precostituite del paradigma quotidiano, l’artista pescarese si muove nella dimensione del dubbio, estensione elaborata con la grammatica precisa di un atteggiamento agnostico basato sulla ferma convinzione che l'assoluto in verità sfugge alla mente umana e, di conseguenza, non è plausibile parlare di ciò che non si conosce. L'intenzione per Sabatini Odoardi, cresciuto giovanissimo alla “bottega” di Fabio Mauri, è quella di mettere in forse le certezze - anche quando si tratta di scomodare la storia per contestarne l'accettazione  passiva dei fatti. Sabatini Odoardi innesca attraverso l’arte un processo di metonìmia mentale  i  cui  presupposti  risiedono  nel  verosimile  e  nella  verosimiglianza.  Si  tratta  di  piccoli  spostamenti  parziali,  di decentramenti che implicano una progressione per derive orizzontali. Il tentativo è attivare il superamento di un atteggiamento linguistico e intellettuale precostituito, ma che l’arte rende vulnerabile attraverso il coraggio di procedere in altre direzioni e sconosciute regioni attraverso la presenza potente dell’opera d’arte intesa come territorio esistenziale costruito tra pieghe e interstizi, eterogeneo e fluido.

 

Accanto a questa sinossi ci sono dei fogli e delle matite sulle quali ciascuno può ascrivere le sue impressioni, firmandole o meno. L’opera è un dispositivo di allerta al servizio della crescita comune, del dialogo, dello scambio. I fogli saranno raccolti per essere letti e commentati insieme all'artista e alla curatrice della mostra durante l'Aperitivo con l'Artista, incontro che si terrà prossimamente a Copernico in data che verrà comunicata. Buona condivisione.

 

Milano, marzo 2016

 

* Testo critico pubblicato sul pieghevole in occasione della mostra personale "Decentrato" a cura di Martina Cavallarin, Whitelight Art Gallery, Spazio Copernico, Milano 2016.