IVAN QUARONI

“EPIDERMICA. DISCORSO SULLA SUPERFICIE DELLE COSE” 

 

Nell’orizzonte della giovane scultura italiana è in corso un processo di recupero della manualità, intesa non solo come disciplina operativa, ma anche come occasione di scoperta e di verifica delle potenzialità espressive di materiali d’uso comune.

Nell’ambito delle più recenti ricerche plastiche, molti artisti hanno adottato modalità di rappresentazione legate a formule figurative, concentrandosi soprattutto sulle qualità tattili e visive dei supporti e privilegiando, per così dire, il gioco dei pattern e delle texture.

Chris Gilmour, per esempio, riproduce in scala reale, e fin nei minimi dettagli, oggetti come automobili, motociclette, sedie a rotelle e macchine per scrivere, servendosi di un materiale di facile reperibilità come il cartone da imballaggio. Il torinese Paolo Grassino, invece, ricopre le sue apocalittiche sculture con fogli di PVC schiumato, comunemente usati nella produzione di manufatti d’uso domestico, mentre l’abruzzese Gino Sabatini Odoardi, attraverso un processo di termoformatura, riveste le sue composizioni di oggetti di un’algida e raffinata patina di polistirene. C’è infine chi, come Maurizio Savini, costruisce sculture e installazioni usando la gomma da masticare.

In tutti i casi sopra citati, emerge un interesse specifico da parte degli artisti per l’effetto visivo e segnico del manufatto, che diventa elemento fondante nella costruzione semantica dell’opera. Non è dunque una riflessione sulla forma, in quanto struttura capace di rimandare alla funzione degli oggetti, il trait d’union delle più recenti ricerche scultoree, quanto piuttosto l’attenzione per materiali e superfici che favoriscono il dischiudersi di nuove possibilità interpretative attraverso inaspettati slittamenti semantici.

 

Anche il lavoro di Michele Giangrande si svolge nel solco di questa nuova sensibilità plastica. Nato a Bari nel 1979, l’artista ha, infatti, elaborato un originale modus operandi, che consiste nel ricoprire gli oggetti quotidiani con un rivestimento realizzato nei più disparati materiali, come cerotti ed elastici, silicone ed erba sintetica o addirittura vere piume d’uccello. In questo modo, i giocattoli, gli strumenti musicali, le armi e gli altri utensili scelti da Giangrande acquistano una nuova epidermide, una sorta di seconda pelle che ne altera non solo l’apparenza, ma anche il significato. Effettivamente, una volta rivestiti da una griglia ordinata di cerotti oppure da una fitta rete di punti di silicone o ancora da un’intricata maglia d’elastici o, infine, da scampoli di finto prato, gli oggetti di Giangrande acquisiscono una nuova identità, frutto di un mutato rapporto tra l’originaria funzione d’uso e il nuovo rivestimento dermico. Insomma, diversamente dai ready made di duchampiana memoria, quelli di Giangrande sono oggetti modificati nella sostanza, poiché l’artista non si limita a prelevarli dalla realtà quotidiana, ma li trasforma radicalmente per mezzo di una manipolazione disciplinata e paziente, che da un lato conserva il simulacro degli oggetti e dall’altro ne altera l’aspetto.

Un esempio tipico della cortocircuitazione semantica innescata dall’artista è rappresentato dalle opere della serie Amici per la pelle, e in particolare da quelle che compongono l’installazione intitolata La Giostra. Si tratta di oggetti interamente ricoperti da una compatta membrana di cerotti, applicati con precisione meticolosa tanto da formare un’affascinante texture geometrica. L’effetto finale è ambiguo e contraddittorio, poiché mentre il colore dei nastri adesivi richiama esplicitamente la pigmentazione della cute umana, la severa disposizione cartesiana degli stessi impedisce il compimento di questo meccanismo identificativo. Certo, Giangrande allestisce un sottile gioco allusivo: evoca la pelle con i cerotti, i quali sono già, in origine, dermo-mimetici, ma in verità il suo gesto estetico mira a sovrapporre due concetti, in altre parole due funzioni diverse, quella dell’oggetto e quella del rivestimento, al fine di suggerire nuove possibilità interpretative. In questo caso, l’applicazione di cerotti su giochi e oggetti legati al mondo dei bambini (il cavallo con le ruote, la carrozzina, il triciclo, la macchinina, la bicicletta) suscita immediatamente un senso d’allarme, dovuto forse all’avvertimento sottinteso di una ferita inflitta ai danni dell’infanzia. Ed è questo anche un primo segnale della tendenza di Giangrande ad intrattenere con la realtà non solo un rapporto ludico, ma anche critico, che invita l’osservatore ad interrogarsi sul senso ultimo delle cose.

 

Mentre il rivestimento degli oggetti di Amici per la pelle può essere inteso come una seconda pelle artificiale, quello delle opere delle serie Legami e Degni di nota, costituite rispettivamente da giocattoli e strumenti musicali, può essere interpretato come una corazza protettiva. Questi lavori, infatti, sono ossessivamente ricoperti da piccoli punti di silicone, che formano un pattern di morbidi aculei. Anche qui Giangrande innesca uno slittamento di senso, sottraendo al manufatto la funzione originaria, ma l’intento è maggiormente ironico e l’effetto meno drammatico. Il modus operandi è ancora quello pazientemente e meticolosamente governato da un senso di horror vacui. Basti pensare che, oltre a oggetti di dimensioni relativamente contenute quali un violino, un triciclo o un grammofono, l’artista si è cimentato addirittura nell’arduo compito di ricoprire la superficie di un vero contrabbasso.

Lo stesso tono lieve e scanzonato hanno le opere umoristicamente intitolate Evergreen, le quali sono per l’appunto inguainate in un guscio composto di strisce d’erba sintetica, poi installate su di un tappeto dello stesso materiale, che forma una sorta di piccola prateria artificiale. In questo modo gli oggetti risultano confusi con l’ambiente, quasi mimetizzati. La qual cosa è tanto ironica quanto paradossale, considerato che l’operazione di Giangrande consiste proprio nel depotenziare, attraverso il rivestimento, la somiglianza con l’oggetto originario e dunque nell’attenuarne l’impronta mimetica. Tutte le sue opere, infatti, sono anti-mimetiche proprio perché non sono (più) unicamente ready made, ovvero oggetti semplicemente prelevati dal quotidiano e quindi decontestualizzati. Invece, nell’installazione Evergreen sono questi stessi manufatti che si mimetizzano con la loro nuova matrice, fino a confondersi con la sostanza di cui è fatta la loro scorza.

 

Avvolti in un intricato viluppo di elastici multicolori sono, invece, i lavori della serie Elasticità di pensiero, che spaziano da oggetti comuni, come bottigliette di Coca Cola, lucchetti e binocoli, fino a quella che può considerarsi una vera e propria armeria, con un pugnale, una pistola, un fucile Winchester e un set di bombe. Viene da pensare che ci sia un riferimento ai venti di guerra che nell’ultimo decennio hanno percorso il pianeta con furia rinnovata, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Palestina al Bangladesh, dal Sudan alla Somalia. Oppure al quotidiano clima di violenza che affligge le metropoli di tutto il mondo. O, ancora, alle stragi nelle scuole e nei campus americani, dal massacro di Colombine alla carneficina della Virginia Tech University. Invece, a ispirare queste opere di Giangrande è il ricordo di un’altra guerra, quella meno offensiva che faceva da bambini, quando si costruivano rudimentali pistole di legno per sparare gli elastici contro gli avversari. Adesso, Giangrande si affida alla forza compressiva degli elastici per reprimere il simbolico potenziale distruttivo rappresentato dalle riproduzioni in scala reale delle armi. Eppure, sembra che l’uso appropriato di questo materiale non basti a neutralizzare il pericolo. Serve, ancora una volta, l’ironia. Come nel caso del lavoro sarcasticamente intitolato Ormai siamo alla frutta, realizzato con i modelli di tre bombe, chiamate nel gergo militare pinapple, apple e lemon.

 

Una delle caratteristiche principali del lavoro di Giangrande consiste nella sua particolare facilità a relazionarsi con lo spazio, a concepire progetti che travalicano la dimensione consueta delle sculture. Questa attitudine era già presente nell’installazione site specific intitolata Un uovo mondo, realizzata sul tetto dell’area riservata al check in dell’aeroporto di Bari e composta da un grande planisfero costruito con oltre ottomila uova. Un’opera organica, quindi effimera per natura, in cui Giangrande, facendo leva sull’ambiguità fonetica del titolo, induce l’osservatore a riflettere sul mutato rapporto tra l’individuo e la società sviluppatosi in conseguenza dei flussi migratori e della nuova economia globalizzata. Il riferimento all’uomo non si ricava, infatti, dal solo riferimento geografico, ma piuttosto dalla texture cromatica delle uova che, come le opere ricoperte di cerotti, richiamano il colore dell’epidermide umana. L’uovo, poi, oltre ad essere uno dei più antichi simboli della vita, è anche un rimando al mondo degli uccelli e, dunque, ai flussi migratori.

Un’analoga stratificazione di significati è presente nella nuova installazione intitolata Le Torri di Babele, anch’essa eseguita con materiale organico, attraverso uno scrupoloso assembramento di migliaia di cialde comunemente usate per fabbricare i coni gelato. Le due costruzioni, caratterizzate da una struttura elicoidale, sul modello del famoso minareto al-Malwiyya della moschea di Samarra o della celebre torre dipinta da Peter Brughel, ripropongono il tema biblico della superbia punita. La hybris, come la chiamavano i greci antichi, è uno dei peccati più gravi in quanto consiste nella sconsiderata pretesa da parte dell’uomo di eguagliare l’opera divina.

Duplicando la figura della torre di Babele, l’artista innesca l’ennesimo slittamento di senso. Così, all’allegoria babelica si sovrappone evidentemente il più recente dramma delle Twin Towers, interpretato dall’estremismo islamico come un atto di punizione divina per la superbia economica, politica e militare del sistema americano. L’ installazione di Giangrande diventa, allora, un monumento effimero alla fragilità umana, edificato con un elemento corruttibile come il cibo (le cialde). Un cibo dolce, però, che rimanda ad un altro peccato capitale, l’ingordigia, che si manifesta nella voracità insaziabile di una società ipertrofica, che finirà inevitabilmente per divorare se stessa.

Michele Giangrande ha la capacità di evocare immagini che sono drammatiche e ironiche allo stesso tempo, riuscendo a restare delicatamente in bilico tra un’irresistibile levità di toni ed un’innata inclinazione critica. Questa ambiguità, che espone le sue opere ad un ampio spettro d’interpretazioni, talora persino discordanti, è il segno distintivo della sua ricerca, mai narrativa e didascalica, ma piuttosto velata e allusiva.

C’è, tuttavia, un duplice filo rosso che percorre l’opera di Giangrande. Il primo è quello che, formalmente, collega tra loro le varie tipologie di rivestimento, siano esse intese come gusci, guaine, corazze, esoscheletri o, più semplicemente, come epidermidi artificiali. Il secondo, tematico, introduce il motivo del viaggio. Molti degli oggetti di Giangrande, infatti, sono connessi con l’idea di movimento: carrozzine, tricicli, biciclette, caschi, macchinine. Altri, come gli strumenti musicali, accennano all’idea del viaggio immobile, dell’esplorazione immaginaria di universi intangibili. Infine le armi, che sono il lasciapassare per un viaggio senza ritorno. Insomma, nelle opere di Giangrande aleggia un sentimento nomade d’irrequietezza e d’instabilità, che assume talvolta i contorni surreali della visione. Come nella valigia dal fitto piumaggio bianco, che porta il titolo di E-migrazione, insieme atto di analisi sociale e delicato peana.

 

Roma, luglio 2006

  

* Testo critico pubblicato sul catalogo "Skin", ed. Galleria Paolo Erbetta, Foggia, 2007, p. 5 in occasione della mostra personale di Michele Giangrande a cura di Ivan Quaroni (23 Giugno - 10 Ottobre 2007), galleria Paolo Erbetta.