FABIO MAURI

“GINO SABATINI ODOARDI”

 

Gino è un ragazzo molto corretto, non pigro, attento con passione al mondo e alla cultura. Qualità che sembrano estranee alla decifrazione di un giovane artista. Ma, come credeva Balzac nelle sue descrizioni di artista, l’animus conta molto nella sua finale fisionomia.

Poche volte ho scritto di un giovane pittore. In passato ho detto di no a cari amici, più giovani di me, divenuti poi artisti famosi.

Volentieri faccio eccezione per allievi dell’accademia di Belle Arti, vi ho insegnato sedici anni, con un evidente senso di protezione.

Tralascio, nel caso, le difese abituali.

Il vero motivo è che non sono un critico. Il talento di un critico lo stimo un una qualità particolare, fondata su metodologie e persino su percezioni diverse.

Ciò che scrivo, anche se espressione di una inevitabile competenza, è un pensiero immediato, da pubblico, su un tema o un fenomeno che mi colpisce.

Il giovane artista, voglio dire, mi trova in una situazione innocente.

 

Che vedo in Gino Sabatini Odoardi?

Vedo un pittore di concezione molto limpida. La sua cultura poetica non è minimamente confusa.

Scopro, di seguito, una vicinanza tra i materiali linguistici, le materie scelte, e l’idea che le associa.

Non vedo intenzioni disperse, anzi rilevo una stringatezza nella realizzazione, per niente elitaria nel senso, che è uno dei difetti più comuni nei nuovi giovani, specie se addestrati in una scuola d’arte avanzata su l’arte contemporanea e le sue libertà, come è un’Accademia.

Tra l’idea e l’opera non sono previste escursioni nebulose oltre l’orizzonte, ma un economico tragitto mentale.

C’è misura, quindi, in Gino Sabatini Odoardi, nella scelta di una zona personale dell’immagine che circola intorno a una cultura, molto edotta contemporanea.

Come se in un coro di individui si sentisse una voce più nitida delle altre, capace di sostenere un ‘a solo’.

Mi sorprende il qualcosa che subito avverto, non lo so subito definire.

Con destrezza il punto di novità mi tocca il naso, mi copre la bocca o l’occhio, costringendomi a chiuderlo.

Un punto impercettibile, bene a fuoco nei dettagli ancora più che nel corpo centrale del lavoro, è il dato che mi segnala la comparsa di un’invenzione.

L’intelligente e precisa strategia rileva, a me almeno, una millimetrica, o grande se si crede, novità di una personalità singola e singolare di artista.

 

Ciò vedo, o non vedo, questo avverto e percepisco in Sabatini Odoardi.

L’accuratezza che modifica un poco ma essenzialmente un oggetto ‘culturale’ apparentemente comune. Lo stimo un dato essenziale, come cerco di dire.

Ad esempio, in “Impossibilità espressa” del 1995, Sabatini Odoardi abolisce la gravità.

I bicchieri stanno diritti su mensoline e il liquido è in diagonale, come pronto a essere bevuto da un alcolista acrobatico. La condotta reiterata dei liquidi contraddice con naturalezza l’esperienza e la gravità.

Metaforicamente l’opera definisce l’arte.

Con arte, Gino fa un gioco di prestigio.

Il gesto è semplice, l’effetto e la meraviglia limpidi. L’immaginazione si fa subito percettivamente autorevole.

L’inverosimile vi abita quale norma abituale dell’immaginazione.

L’insidia è convincente per il suo garbato ordine, nella docilità con cui la materia fa a meno della propria legge.

Gino usa la modernità, cioè un linguaggio contemporaneo, per comporre una sua individuabile fisionomica lingua.

 

In “Nudo”, del 1997, in una titolazione per niente didascalica, un pantalone esclude il proprio ‘corpo’ (dell’indossatore, dell’indossatrice), confinandolo fuori quadro, e si ripiega con cura.

Al modo di una buccia di banana vuota e ricomposta, il blue jeans segnala un’accidentale, quasi involontaria appartenenza, maschile o femminile, a scelta. Implicitamente il nudo è appena uscito, e lasciato l’opera con un aggettivo-sostantivo, il nome di un titolo, che tiene stretto, di fronte a sé, un corpo nudo.

Il lavoro, letteralmente, spoglia chi lo osserva. L’efficacia dell’invenzione si distacca, quasi si impone, nei confronti dei numerosi indumenti appesi dell’arte contemporanea, simboli piuttosto abituali dell’uomo disagiato dell’attualità.

E’ ironico, non epico, realista e sottilmente performativo.

 

Tratti diversi ma stilisticamente analoghi li colgo in “Tonaca: 18 maggio 1996” del 1996.

Un saio, sovrastampato di pagine di giornali, si compone come una reliquia, disteso su un asse di legno.

Le cuciture, le sfrangiature, le variazioni del tema base, del tutto precise invitano a un secondo (terzo, quarto) immediato sguardo, per l’approfondimento del suo sistema formale. Una miriade di idee seconde fanno da formiche operaie all’idea prima, al senso dell’intero sistema, che se ne sta racchiuso nel proprio significato, come un simbolo dormiente.

“La tunica”, antica e moderna, costringe, (l’arte non lascia mai in pace l’inerzia del giudizio), a decifrare meglio le proprie inquiete impressioni.

La forza di Gino non è ‘forte’, non è ‘debole’, è ‘precisamente sottile’.

L’oggetto dà l’idea di un Gulliver catturato da una miriade di fili nani. E’ una cultura che viene catturata, e ricomposta (Burri, Rauchenberg, altri…).

Di nuovo un’opera di Sabatini Odoardi sembra offrirsi già spiegata, ma devi ricomprenderne le ragioni dall’inizio. La sua forma decisa e minuziosa provoca la ricerca dell’osservatore, con accattivante grazia, senza respingerlo.

E’ la bravura di un artista porgerti un piatto conosciuto ma di un sapore sconosciuto.

Prima di decidere che farne lo hai già assaporato.

Spero di non tramutarmi da amico in precettore se ricordo che il riconoscimento di partenza, di cui tutti i giovani sono avidi, non ha mai carattere definitivo. E’ un diploma di garanzia una tantum.

La poesia, l’arte sono tutt’altro che autostrade o altopiani.

Quanto sia faticoso insistere in questa arrampicata, l’ho descritto parecchie volte agli allievi. Se Gino non era distratto, lo sa. Ma non è tipo da essere distratto.

Nella gara dell’arte, (è anche una gara), il numero di partenza Gino ce l’ha.

Il resto sono scelte, occasioni, atti e rischi successivi, specificamente individuali.

La vocazione d’artista si affida al talento e al desiderio, ma anche a elementi minori, però cruciali, di persistenza, riflessioni, pazienza, elaborazioni, che ne consentono lo sviluppo, ne determinano la durata e l’organicità finale del senso.

So che è quasi impossibile soddisfare il desiderio legittimo di sapere di sé di un giovane artista.

Tali pensieri, non critici, da amatori esperti, dovrebbero essere letti più tardi. Alla distanza si comprende se erano pertinenti le cose che si dicevano di noi, che ci sembravano ovvie ed un po’ esterne.

Spesso lo sguardo esterno fissa da dietro la nuca. E’ a sua volta invisibile.

Spero di non deludere troppo il giovane amico.

Gino è più che correttamente attrezzato per il curioso e possessivo viaggio nell’arte, che è come dire, con giudizio e passione, nel mondo.

La nascita di un artista resta un segno felice, il tempo non si limita dunque solo a chiudere i conti.

Di nuovo l’intelligenza affiora concretamente, penetra il mondo, lo interpreta, carpisce qualche segreto all’enigma di una cosa e dell’insieme in cui circola per ogni direzione l’esistenza.

Questa tensione è dell’arte. Forse, con le obbligatorie mediazioni, è l’arte.

Chi fa centro deve percorrere una via curiosa: storica ma personale.

Gino lo vedo già, come dico, in corsa su questa via, con una sua personale cadenza, una fisionomia già ricostruibile, precisa.

Molti auguri, di cuore.

 

Roma, Febbraio 1998

  

* Testo critico pubblicato sul periodico d’Arte e Architettura "Art E Tra" n. 9, Luglio 1998 (numero speciale monografico), ed. MUSPAC Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea, L’aquila, 1998, pp. 4 - 5 in occasione della Mostra personale “Gino Sabatini Odoardi” a cura di Enrico Sconci (24 - 26 Luglio 1998) ex Convento Oratorio delle Grazie - Alanno (Pe).