ANTONIO ZIMARINO

"SENZA TITOLO IN FUMO"

 

I bicchieri su una sorta di mensole/altarini, contengono un materiale nero fumo che ricorda una combustione avvenuta. Il bicchiere dà a questo materiale lo stato solido, fisico, spaziale, diversamente in quanto polvere, quell’elemento si disperderebbe facilmente non avendo più capacità di coesione. Il processo che lo ha portato ad essere una concrezione raccolta, è narrato dalla fotografia del fumo posta dietro: ognuna irripetibile, differente, eppure fastosa, evidente e allo stesso tempo, eterea ed immateriale, fatta insieme all’aria e al vento. Il processo del cambiamento di stato non è visibile: la polvere che qui vediamo nel bicchiere è il prodotto, l’identità  materiale di quelle nuvole di fumo infinite e varie, perché infinito e vario è stato il respiro che le ha animate. L’immagine della “nuvola di fumo” per realizzarsi nella sua spettacolarità, aveva richiesto degli elementi ulteriori (vento, aria, fuoco) senza dei quali adesso, la polvere resta aridamente tale anche se potenzialmente capace d’altro. Le mensole ostendono l’elemento fisico e la rappresentazione delle sua variabilità infinita di immagine dandoci lo stato reale e appunto, immaginale di quella materia.

È chiaro da questa lettura degli elementi formali dell’installazione (fate attenzione: la serialità e la ripetizione delle variabili dell’immagine è essenziale al senso concettuale finale) è  chiaro che ciò che Gino Sabatini Odoardi ha messo in moto è una “macchina” complessa e raffinata di “senso” che non possiamo liquidare con le strutture mentali con cui troppo spesso affrontiamo le mostre d’arte sperimentale contemporanea.

Ordinariamente si è portati a pensare che le opere d’arte siano dei modi attraverso cui qualcuno intenda comunicare qualcosa. Questo può anche darsi in molti casi, ma il limite che l’osservatore trova nell’arte sperimentale contemporanea è l’intraducibilità della dimensione concettuale che l’opera (istallazione, immagine, azione o cosa essa sia) sembra suggerire. Troppo abituati alla funzionalità di ciò che diciamo, siamo o facciamo, pensiamo pure che il senso ci sia, che esso sia dato, ma non intendiamo chiaramente come, perché culturalmente non siamo ancora attrezzati a pensare e a vivere la “complessità” che un’opera davvero “contemporanea” può mettere in campo. L’oggi, il contemporaneo, non è il tempo e il luogo (o l’immagine) che dice certezze, ma  un testo visuale in cui ci è chiesto di verificare la credibilità e l’efficacia del metodo che ci siamo scelti o costruiti, per giocare il gioco del vivere e del comprendere. E invece, nella maggior parte dei casi delle innumerevoli mostre dette d’arte contemporanea che segnano il nostro momento storico, gran parte del pubblico e degli operatori preferiscono giocare il gioco di ruolo a cui la relazionalità modaiola e mercantile ci spinge. Leggiamo davvero l’arte? Ma cosa leggiamo? Ricorriamo ancora a concetti bisunti, laschi e soggettivi come “emozione”, impressione, istinto? O ancora, estatici, ci si dice di intuire profondità cosmiche, senza saper cogliere i dati visuali o più semplicemente fingiamo interesse pur di dire di essere stati lì e salutare qualcuno?

Quello che mi è sempre piaciuto di molti lavori di Gino Sabatini Odoardi è il gioco sornione di sfidare intellettualmente chi li guarda, ponendo sempre un “oltre”, una complessità di rimandi intuibili ma da ricostruire, presentando dei dati evidenti, ma lasciando percepire l’esistenza di una “zona”, di una “assenza” da completare con l’interpretazione o l’intelligenza. Questa installazione allora, che cosa ci permette di notare nel suo gioco di disconnessioni tra elementi di rappresentazione e tra stati materiali?

L’identità di qualcosa non è propriamente né nella rappresentazione della cosa, né nell’elemento fisico che la costituisce: essa è piuttosto, la relazione e l’interazione tra gli elementi. Ciò che vediamo esiste come immagine avvenuta o come immagine/elemento fisico presente, ma l’intrinseca realtà delle cose è la complessità del processo che genera e rigenera l’immagine e produce i cambiamenti di stato e di senso. Ovvero, il senso delle cose è nelle relazioni infinite che possono darsi tra esse. Cosicché questo lavoro ribadisce il superamento della tautologia del Concettuale kosuthiano: la realtà della cosa e del significato non è nello “stato” e nella “definizione”dei suoi elementi, ma nelle variabili infinite del processo che li relaziona e li ricombina. Dopo il Concettuale, l’immagine dell’arte affronta i processi, la transizione delle cose e di sé stessa e se non riesce a fare questo, se non è tale, se non è in grado di porsi come tale, resta banale illustrazione e quindi acquisisce senso solo da ciò che mostra. Insomma: o accettiamo che è dell’arte il “processo”, la complessità, l’interpretabilità del proprio racconto o della proprio costituirsi come forma, oppure l’arte scade a mera “segnaletica”. Nella apparente fissità, questa installazione è invece la celebrazione della variabilità e delle possibilità che uno stesso elemento fisico ha di rappresentare infinite forme. Sarebbe come dire che non è la materia che fa l’arte, ne propriamente lo è l’immagine che si realizza, ma l’arte si dà nel respiro profondo che intercorre tra gli elementi, in quel fluire mobile ed incerto delle combinazioni. L’arte contemporanea ambirebbe oggi ad indagare la complessità di quel respiro. Il luogo fisico e mentale incerto dove le cose si trasformano è lì che andrebbe posta l’attenzione.

 

Pescara, luglio 2009

 

Testo critico pubblicato sul catalogo della mostra collettiva “Take a deep breath”,  a cura di Francesca Referza e Antonio Zimarino, ed. Spoltore Ensamble, Spoltore (Pe), 2008, pp. 16-23.