ARTE E FILOSOFIA NELL'OPERA DI FABIO MAURI

Intervista a cura di Silvia Sicilia

 

Vorrei iniziare con una domanda apparentemente semplice. Fabio Mauri ha insegnato per vent’anni Estetica della sperimentazione all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Ricorda il vostro primo incontro? In Mauri vi era un’aura che coinvolgeva molti studenti, divenuti poi suoi assistenti in studio. Com’è stato per lei essere assistente di Fabio Mauri?

 

Conoscevo Fabio Mauri molto tempo prima di iscrivermi all’Accademia, la sua fama era ben nota anche al di fuori delle aule aquilane. Erano i primi anni ’90, ricordo benissimo il nostro primo incontro, arrivai in Accademia mezz’ora prima che si tenesse la (mia prima) lezione di Estetica. Emozionato come un bambino, mi posizionai in prima fila, quaderno alla mano e occhi spalancati nell’attesa del suo arrivo. L’aula era gremita, non c’erano più posti a sedere. L’aria del momento, aveva trasformato quel luogo in un cocktail di felice eccitazione mescolata all’ansia. Si percepiva lontano un miglio che stava per sopraggiungere una persona speciale. Con passo incerto, ecco arrivare Fabio scortato da una piccola coda di gente, in abito blu (stropicciato) e Borsalino nero in testa, si sedette in aula accanto alla sua assistente/accompagnatrice (Marcella Campitelli). Tra le dita, la sua classica MS milde morbida che faceva volteggiare in aria con disinvoltura laica. Il fumo prodotto dalla sigaretta lo incorniciava visivamente come in una monocroma mandorla gotica. Si accorse subito del mio sguardo fisso sulla sua voce, appuntavo tutto maniacalmente, perfino le battute ironiche fuori contesto. Mi scrutò, ci scrutammo. Fu una lezione sul Futurismo italiano magistrale, infiniti aneddoti, vastissimi esempi, un mondo aperto con una dizione impeccabile. A fine lezione, lo ringraziai per la meravigliosa esperienza e per il privilegio che avevo avuto, lui con voce decisa replicò: “lei è un artista?” Senza timori risposi: “sì!”. “Bene - continuò lui - se lo vorrà, la prossima lezione, mi faccia vedere il suo lavoro”. Io: “assolutamente sì, e sarà un onore”! Fu così che ci conoscemmo.

Di lì a poco, Fabio mi chiese se volevo lavorare con lui, naturalmente la cosa mi riempì d’orgoglio. Accettai senza rifletterci. Fu una delle esperienze più importanti della mia vita (se non la più importante). Mi emozionavo solo vederlo spostare gli oggetti sul tavolo. ‘Guardarlo’ ‘guardare’ è stata una pratica che ho affinato segretamente, con una perseveranza ossessiva. L’ho pedinato intellettualmente anche nei sospiri. “Bisogna farsi sedurre dalle cose” mi sussurrava a bassa voce. Uno sguardo saturo di complessità, acume, intuito, con una smisurata volontà di incidere. Ricordo di aver preso appunti (di nascosto) anche quando - per telefono - riferiva alla sua domestica (Cecilia) la lista delle cose da comprare per la casa.

 

Nel 1997 alla Kunsthalle di Klagenfurt ha partecipato alla performance Che cosa è il fascismo. Gli attori della performance, così come gli spettatori, sono immersi nel clima ambiguo e inquieto della grande menzogna dei totalitarismi (fascismo e nazismo), dove, nella superficiale armonia della quotidianità, si annida il male. Che cos’è il fascismo allude a un esercizio spirituale, e mi chiedo, dunque: come è stato sperimentare l’orrore con il proprio sguardo e il proprio corpo, in prima persona? Vorrei inoltre soffermarmi sulla rilevanza dei dettagli, determinanti per le azioni, e sulla meticolosità di Mauri nel comporre la performance. 

 

Dopo un anno e mezzo di stressanti prove, fui complice appunto - da comparsa anonima fuori fuoco - di questa meravigliosa opera performatica complessa. Fabio era ossessionato dalla perfezione del dettaglio, dalla meticolosità della postura e dalla dizione scevra da inquinamenti regionali. Ciò nonostante, dietro l’ostaggio delle emozioni, pretendeva un’ingenuità credibile, non attoriale. Non era facile stargli dietro, assecondarlo.

Oggi, a distanza di quasi 25 anni, frugo tra le pieghe del mio ripensamento e qualcosa mi pervade, cerco di decifrarne i contorni. Con nostalgia consolatoria prendo atto che la presenza attiva di quel giorno non mi ha permesso di cogliere l’essenziale. L’inseguimento dell’azione programmata (tra dibattito, scherma, sbandieramento e attività ginniche varie), ha favorito l’anestesia della mia coscienza. Sono stato un colore dinamico, un pigmento controllato all’interno di una composizione ideologicamente complessa. Durante tutta l’azione, ho mancato il grande presepe dello spettatore cosciente - fuori tribuna. Ho mancato di cogliere in quell’atto l’ideologia falsa, la superficialità istituzionalizzata, la tautologia del potere, la bugia nascosta nell'ordine e la vergogna della confusione culturale che purtuttavia mi vide parte di un tutto dove l'apparente normalità del sogno dogmatico era pronto a tramutarsi in incubo. Ho mimato il serio come una poesia raccontata a memoria sulla sedia, smarrendo totalmente i contorni, il vero, la profondità. Una mostra controstoria. Una performance controtempo. L’ho persa per sempre, perché c’ero. Ero commedia purtroppo.

 

Come nella performance, anche nell’allestimento delle mostre Fabio Mauri aveva un atteggiamento particolarmente attento sulla disposizione degli oggetti. Potremmo dire una precisione “al centimetro”. In quanto è stato suo assistente, può raccontarmi come venivano organizzate le mostre e che tipo di mansioni doveva rispettare? Inoltre, come si svolgevano le attività abituali e i lavori nello studio di Fabio Mauri? 

 

Mi sento quasi di rettificare la domanda riguardante la “precisione al centimetro” in quanto è risaputo che Fabio è sempre stato l’artista del “millimetro”. Ricordo quando a Klagenfurt mi fece salire su una scala alta 5/6 metri e mi indicò di spostare di un paio di millimetri uno schermo. La cosa non mi stupì. Anzi…

Le mostre avevano più o meno tutte lo stesso criterio organizzativo. Non c’erano i computer, quindi si lavorava in analogico. Si partiva sempre dalla famosa cartellina colorata entro cui Marcella rilegava tutto ciò che riguardasse quella determinata mostra, idee, appunti, schizzi, misure, testi, inviti ecc. Successivamente Fabio ci dava le prime indicazioni di massima. Ognuno di noi allo studio aveva mansioni specifiche, Marcella Campitelli aveva compiti di segreteria, Claudio Cantelmi si occupava delle maquette degli spazi espositivi in scala, Ivan Barlafante ed io ci occupavamo delle opere pittoriche e/o installative (da realizzare ex novo oppure restaurare opere datate).

Il lavoro non era sempre lineare, poteva capitare che un’opera si concludesse in pochi giorni, oppure ci volevano settimane o mesi. Ricordo che una volta, per realizzare una piccola scritta “The End” su tela ci misi una settimana intera, naturalmente non per colpa mia, Fabio desiderava per quel piccolo lavoro un determinato “nero fotocopia” che aveva in mente. Dovetti ingegnarmi quasi fino all’esaurimento per poter assecondare la sua richiesta. Fortunatamente ci riuscì. 

 

Lo schermo come soglia, come oggetto e luogo di ogni possibile proiezione. Lo schermo è bianco, talvolta appare la scritta “the end”, ma è il vuoto a riempirne lo spazio. Mi chiedo, osservando i suoi lavori, quanto hanno influito gli Schermi di Fabio Mauri, e soprattutto il bianco, nella sua ricerca artistica? Mi riferisco in particolare al progetto Controindicazioni e alla ricerca Cortocircuiti, ma anche le termoformature in polistirene (Senza Titolo, 2013). Quanto è stata importante per lei una visione estetico-filosofica, oltre che artistica, all’interno del suo percorso? 

 

Aver conosciuto e lavorato con un grande maestro come Fabio Mauri mi ha dato la possibilità di penetrare il mondo con una consapevolezza diversa, di cercare di carpirne un qualche segreto nascosto. In lui ho appreso la disciplina di coniugare etica ed estetica. Ho capito l’importanza e la pericolosità del linguaggio. 

Nessuno può sottrarsi alle influenze che la circondano, sosteneva a ragione Marcel Duchamp. Dalla mia tesi sul Silenzio, fino ad approdare/sprofondare nel bianco sottrattivo, è naturale che epidermicamente si possono ritrovare influenze legate agli schermi monocromi. Parallelamente, non posso nascondere che c’è sempre stata una passione smisurata anche per Kazimir Malevic e per il suo noto “Quadrato bianco su fondo bianco”.  Di conseguenza, l’azzeramento pittorico, la riduzione analitica di una certa avanguardia - pre e post anni ’60 - ha influito sicuramente su gran parte della mia scelta formale ed espressiva. 

 

Tenendo aperta la riflessione sulla domanda precedente, vorrei approfondire con lei la rilevanza dei segni e dei simboli nel lavoro di Fabio Mauri. In Cortocircuiti lei evidenzia l’enigmaticità dei segni, in particolare di natura religiosa. Vorrei riflettere insieme a lei, dunque, circa la lettura dell’enigma del mondo attraverso l’arte. Fabio Mauri ci parla di una extraterritorialità dell’arte, tentando, attraverso il suo lavoro, una denaturalizzazione del mondo con la conseguente prorompente caduta dell’illusione. Come ha colto questo pensiero e quanto ne ha fatto tesoro nella sua concezione artistica? 

 

Fabio aveva capito già alla fine degli anni ’50 che un fascio di luce poteva farsi corpo ideologico e mobilitare masse. Di conseguenza l’importanza dello schermo come luogo dove contenere i media in forma letterale o simbolica era fondamentale. Questo spazio monocromo del possibile, del “già accaduto”, spesso segnalato con la scritta “The End” o “Fine” metabolizza significati inversi. Fabio inizia appunto dalla fine, dove ogni possibile esperienza contemporanea è manipolata, alienata da realtà surrogate e pone pertanto la questione del libero arbitrio in una società dominata dai mass media.

In Cortocircuiti io ho tentato di mettere in luce la caducità del linguaggio simbolico dogmatico, le sue contraddizioni, le sue false certezze, i suoi buchi mimetizzati da bugia. 

L’arte, come sappiamo ha delle anomalie sostanziali che in qualche modo danno vivibilità a questo insieme enigmatico che è l’universo. Spesso la ragione è messa costantemente sotto scacco. Come sosteneva Fabio è difficilissimo farsi un’idea dell’infinito, ma se vediamo l’infinito della Tempesta di Giorgione un’idea ce la facciamo. Diventa un’idea praticabile. 

Fabio era molto religioso, aveva un canale diretto con Dio, ci litigava spesso. Io non sono religioso. Preferisco definirmi agnostico piuttosto che ateo. Naturalmente, come lui, credo negli angeli di Giotto, nella Resurrezione di Piero o nell’Assunta di Tiziano, ma francamente non conosco la formula che governi la verità e l’errore. L’invisibilità del mondo è sicuramente multipla. 

 

Tra le pieghe del 2013 è un lavoro che vede il panneggio protagonista in quanto oggetto. La trasformazione attraverso la termoformatura permette di creare una moltitudine di celati spazi, di micromondi nascosti, fantasmi. Potremmo dire che l’ombra e la luce aprono agli eventuali dualismi che l’arte, così come la vita, presenta. L’oggetto, anche in questo caso è il bianco a prevalere, attraverso le pieghe muta, si trasforma, dialoga nello spazio. Mi domando se anche la sua riflessione sia legata al paradigma proiettivo e se in quell’oggetto sia la memoria e l’esperienza a precedere la percezione. 

 

È nel ripiegamento che trovo le ragioni di questo mio lavoro. Forse il significante è da ritrovare nella mia infanzia: provengo da una famiglia storica di tappezzieri e di conseguenza ho sempre avuto residenza stabile tra le pieghe monadiche di mia madre. L’odore e la seduzione tattile del velluto, del lino, del cotone o della seta hanno sempre giocato a scacchi con la mia forte immaginazione. Da bambino amavo costruire capanne con le stoffe in lavorazione, il panneggio era parte costitutiva dell’ornamento architettonico delle mie caverne. 

La piega bianca. Questa magia acromatica composta di senso che si replica all’infinito nel suo illimitato riprodursi, stratificarsi, costituirsi, crea labirinti nomadi senza finestre che celano nuove armonie in cui ogni azione è un’azione interna, piega nella piega, ombra nell’ombra. Ogni lieve ondulazione coagulata sfugge alla rigida scala diatonica della forma, un gioco espressivo di “accordi” (Deleuze). Ogni panneggio è una linea barocca che cela tracce e segni che coincidono con gli elementi essenziali della percezione, luce/ombra, bianco/nero, interno/esterno. Drappi, che nelle loro vaste combinazioni, raccontano le innumerevoli smagliature della vita, dove niente è chiaro e rivelato. La plasticità dell’ombra nascosta è sperimentabile, così come gli ingressi multipli diretti all’anticamera del pensiero muto. È qui che ripiego, da astigmatico, il mio sguardo ateo sul mondo.

 

Per concludere, vorrei chiederle di richiamare alla mente il più caro ricordo che ha con Fabio Mauri. Può parlarmene? 

 

Naturalmente ho tantissimi ricordi. Alcuni privati, altri più personali, diversi legati al lavoro, altri addirittura surreali, ma ciò che spesso mi torna alla mente è un aneddoto simpatico che racconto spesso. Era l’estate del 2000 e stavamo montando la mostra “La Memoria Simbolica, con Rosa Bianca” a cura di Massimo Riposati alle Scuderie Aldobrandini a Frascati. Partivamo insieme la mattina presto da Roma e parcheggiavamo sempre nello stesso posto sulla grande piazza Marconi. All’epoca, nel piazzale, vi erano due edicole di giornali, una su ogni lato della piazza. Come ogni mattina, una volta arrivati, Fabio mi chiedeva di comprargli il quotidiano “La Repubblica”. Questo rito si ripeté per tutto il periodo del montaggio della mostra. L’ultimo giorno, prima dell’inaugurazione, dopo aver parcheggiato sempre nello stesso posto, gli chiesi se dovevo andargli a comprare il giornale, e lui con tono deciso mi rispose: “Vacci ma ad una condizione, cambia edicola, vai all’altra, perché quella dove vai sempre riporta perennemente pessime notizie“. Io non me lo feci ripetere due volte, piegato in due dal ridere, cambiai edicola.

 

* Intervista a cura di Silvia Sicilia tenutasi nel novembre 2021 e pubblicata nella Tesi di Laurea "Arte e filosofia nell'opera di Fabio Mauri". Relatore: Massimo Carboni; correlatrice: Angelica Speroni. Tesi discussa nel marzo 2022 nell'Aula Magna dell'Accademia di Belle Arti di Roma.