NELLA TORRE DELLE DOMANDE

Intervista a cura di Miriam Di Francesco

 

La prima termoformatura di Gino Sabatini Odoardi risale alla sua nascita. 

A caldo, risucchiato dell’aria, compresso, dilatato, ha fatto la sua prima apparizione nel silenzio. Più vicino alla morte che alla vita, Gino è partito dal sottovuoto.

La sua seconda termoformatura risale all’età di dieci anni, quando si imbatte nello studio di un giovane pittore, studente dell’Accademia di Brera. Si siede al suo fianco e mette sottovuoto anche quel momento.

Se avesse potuto, Gino avrebbe termoformato persino il bacio dato all’opera di Salvador Dalì, Allucinazione parziale: sei apparizioni di Lenin su un grande piano, nel Museo George Pompidou di Parigi. Invece ne ricava uno scampato arresto, l’istantanea del momento, l’incipit di una performance, la fede per la pittura. 

 

Gino apre la porta di legno del suo studio all’interno di una torre del XIV secolo che tanto ricorda il suo bicchiere rovesciato. Al di sotto, l’antico laboratorio di un fabbro colmo di oggetti e attrezzature, al di sopra, un vano vuoto elegantemente ristrutturato che un tempo sorvegliava i paesi limitrofi fino al mare; nel mezzo, il tempo cristallizzato. 

“Sai, sono venuti a trovarmi Mario e Dora (Pieroni-Stiefelmeier)”, mi dice, “Dora ha capito subito che sono qui da molto -ventiquattro anni- perché per sua stessa ammissione, il tempo qui è stratificato”.

 

Gino si fa spazio tra scaglie bidimensionali appoggiate al muro. Con attenzione mette un piede dietro l’altro e io con lui. Sono prudente; un corridoio stretto, di colpo, si allarga in una stanza che ha le fattezze di un soggiorno. Di nuovo, si sfocia in un’altra stanza, ma questa volta qualcosa sembra cambiare. 

La grande parete è circolare, il pavimento in cotto originale tentenna in molte zone, le parole lì mutano di continuo nell’illusione di una voce che ti aggredisce alle spalle. Fotografie, pitture, sculture, appese al muro precipitano addosso sorrette da lunghi chiodi in grado di ovviare la deformazione delle pareti. Abbassando lo sguardo, vengo risucchiata in un buco nero, respinta poi dalla propagazione di energia e materia del bianco totale del tavolo da lavoro, posto al centro della stanza e della torre. Intorno c’è solo lo stretto necessario per spostarsi uno alla volta. Circumnavighiamo il tavolo mentre Gino ripercorre, tappa dopo tappa, la sua vita.

“I primi a influenzarmi sono stati i pittori surrealisti: Dalì, Magritte e De Chirico. Vedi?!”

 

Gino volteggia da una parte all’altra del tavolo afferrando uno dei suoi dipinti da studente. 

“E da quel dipinto come ci sei arrivato alla termoformatura?”, chiedo sgranando gli occhi.

 

Gino scatta nella stanza adiacente. Io lo seguo: 

“Rinnegando quei quadri che non mi piacevano più. La prima operazione è stata quella di rilegare in questa teca le varie pezze sporche utilizzate negli ultimi quadri per pulire i pennelli, mentre la seconda è stata quella di smontare dai telai tutte quelle tele dipinte che non sentivo più mie, accartocciandole, come fossero delle poesie sbagliate”.

 

“Come un prototipo del sottovuoto!”, esclamo sorpresa.

“Esattamente”, picchietta le dita sul vetro della teca. “Trovavo più interessante un groviglio di pezze sporche o una tela accartocciata, che un quadro perfettamente intelaiato.”

 

Per Gino, interessante è un altro modo per dire tormento, buttarsi a capofitto su una teoria, un libro, una ricerca di senso che fin dal principio sa di non trovare. Tutto ciò che non è interessante, è semplicemente fuori. 

Alzo il mento; da sinistra verso destra osservo un ammasso di abiti, poi un paio di scarpe conservati sottovuoto. Infine incrocio il suo sguardo:

“Ecco, questi sono i primi tentativi d’ibernare sottovuoto oggetti, ma poi con il tempo, la pellicola sottile, trasparente non mi convinceva più. Volevo qualcosa di più spesso… rigido, monocromo”, seccato, tutto d’un fiato, afferma: “E poi non volevo che si vedesse più l’interno.”

 

“Perché cosa c’è che non va nell’interno?” chiedo incuriosita. 

“Nel visibile non trovo risposte” replica deciso.

 

Piano piano, di quella termoformatura recente più lucida e raffinata, comincio a scoprirne il suo processo a ritroso. Secondo Gino due sono le cose di cui non t’insegnano nulla a scuola: la nascita e la morte e lui fa nascere l’opera quando l’oggetto esala il suo ultimo respiro. Il brivido algido del bianco, la perfezione tattile di una lapide, la tossicità del materiale trasformato ad alte temperature è la relazione che Gino ha con le cose in cui vita e morte coincidono.

A passo sostenuto torna nella torre, allunga il braccio per agguantare una termoformatura da dove è possibile vedere l’oggetto imprigionato in un biglietto di sola andata, senza l’opportunità di cuocere due volte. Ad essere congelati sono un joypad e un rosario, simboli del potere spirituale e temporale, dell’antichità e contemporaneità in cortocircuito. Di domande Gino se ne è fatte tante e nemmeno nella fede ha trovato risposte. 

            

Continuo a curiosare fino a quando riconosco la sedia co-protagonista delle sue ultime installazioni. La struttura è in legno chiaro, la seduta in paglia. Mi avvicino allo schienale imbottito di un materiale indefinibile su cui è appoggiato un canovaccio bianco.

“Sai a cosa serve quell’imbottitura?” Mi chiede:

 

 

Sono perplessa. Lui continua:

“Il polistirene deve arrivare a quasi 300 gradi per poterlo lavorare. Poi, tolto dai forni, ho 7/8 secondi per lavorarlo manualmente. Dopodiché, il materiale si ritira del 6/8 per cento nelle successive 24/48 ore. Se non calcoli tutto questo poi succede che…”

 

Gino si destreggia dall’altra parte della torre e mi porge una delle prime opere in cui non aveva fatto questi conti. La stringo in mano passando delicatamente il polpastrello sugli squarci e mi chiedo come ho fatto a non pensarci prima. 

Mi guardo intorno dove nulla è come sembra. Sono persa senza punti di riferimento, sovrastimolata, infreddolita dalle vertigini. Gino è nella sua alcova, elettrizzato dagli stessi punti di riferimento da cui si è liberato.

L’energia del tavolo mi richiama. Tocco con invadenza qualunque oggetto mi capiti a tiro fino a unire pollice e indice per sollevare un piccolo bozzetto. Questa volta sembra vitale. Di tutto ciò che avevo visto, sentito e toccato fino a quel momento mi sembrava più vicino alla morte, ma non questo simil velluto. Lo tengo come un amuleto per tutto il tempo, mi conforta. 

Continuo a scrutare tutto ciò che poggia sul piano di lavoro. Il famoso bicchiere ritratto, termoformato, scaraventato, riempito dell’interesse di Gino è lì. Lo prende in mano, mi guarda attraverso la trasparenza del vetro:

“Ecco, questo è il mio mondo. Un simbolo anti-simbolico. Mia nonna mi versava qui il succo alla pera”.

 

Intravedo una sottile patina acquosa negli occhi di Gino. Sono i ricordi che ha deciso di trattenere, disegnare nei progetti, di piegare per sempre, di colmare nei recipienti. Stringo di nuovo quel piccolo disegno di creta nera e acquerello su polistirolo floccato.

“Dammi”...

 

Gino tende la mano e, con il palmo verso l’alto, mi fa cenno di riavere il bozzetto. Glielo consegno. Si allontana per pochi secondi, rovista tra i tanti utensili. Agita uno spray, fissa quel piccolo disegno e me lo regala. 

 

Lo saluto mentre mi spunta un sorriso che Gino ricambia, segno di un legame tra domande che non trovano risposte. 

 

Alanno (Pe), 17 febbraio 2023

 

* Intervista a cura di Miriam Di Francesco e pubblicata sulla rivista Segno online il 17 febbraio 2023.