GINO SABATINI ODOARDI

Intervista a cura di Maria Crispal

 

Il silenzio è stato il tuo primo svezzamento espressivo. Disegnare era la sola cosa che t'importava davvero.

Se la vita è puro rumore tra due incomprensibili silenzi, quello prima di nascere e quello dopo la morte, allora voglio iniziare dalle origini del mio privato rumore. 

Nascere non è stato un granché. La mia prima forma espressiva è stata il silenzio. C'è voluto l’agguato arrogante di un forcipe per sradicarmi dall’altrove. Non ne volevo sapere di venire al mondo, e tuttavia, appena venuto alla luce, nessun pianto di sana e robusta costituzione mi ha accompagnato uscendo dall’amniotico. Sono stato subito consegnato al buio del pre-coma e solo una pronta rianimazione mi ha riportato nell’assordante rumore del mondo. Dunque, il silenzio è stato il mio primo svezzamento espressivo. Negli anni successivi, la memoria mi riporta al cestino dell’asilo pieno di fogli a quadretti e matite colorate. Non ricordo di aver mai sacrificato un solo centimetro quadrato di quel cestino per una merendina. Il cibo mi faceva schifo. Disegnare era la sola cosa che m’importava davvero.

Intorno ai 10 anni, conobbi Antonio Capone, pittore dotatissimo nonché amico di famiglia. Ricordo benissimo il suo studio, una casetta di campagna di pochissimi metri quadri. In quella stanza ho capito immediatamente cosa sarebbe stata la mia vita, o meglio, cosa la vita avrebbe preteso da me. 

 

Cominciasti a disegnare con Antonio Capone il giorno dopo che vi eravate conosciuti. Ti ha insegnato tutti i segreti della pittura ad olio.

Attraverso libri e cataloghi mi fece conoscere i pittori surrealisti e metafisici. Fui scosso da tre figure: Dalí, Magritte e De Chirico. Ne rimasi influenzato per un lungo periodo. Insomma, passare dai fogli a quadretti ai quadri è stato piuttosto spontaneo. In seguito mi sono diplomato al Liceo Artistico di Pescara e successivamente in Pittura all’Accademia di Belle Arti di L’Aquila discutendo una tesi in Estetica sulla fenomenologia del Silenzio con Massimo Carboni. Negli anni del Liceo ho conosciuto il lavoro di Ettore Spalletti, docente di Discipline pittoriche. Durante gli studi accademici, determinanti sono stati gli incontri con Fabio Mauri, docente di Estetica (con il quale sono stato performer in Che cosa è il fascismo nel 1997 alla Kunsthalle di Klagenfurt in Austria e successivamente assistente) e Jannis Kounellis (di cui sono stato allievo nel 1998 all’Aquila nell’ambito del seminario-laboratorio curato da Sergio Risaliti). Queste sono state le figure determinanti per la mia formazione d’artista.  

Fabio Mauri è stato il maestro più importante. In lui ho appreso la disciplina di coniugare etica ed estetica. Ho capito l’importanza e la pericolosità del linguaggio. Mi ha insegnato a penetrare il mondo con una consapevolezza diversa. Mi emozionavo semplicemente vederlo spostare gli oggetti sul tavolo. Guardarlo guardare è stata una pratica che ho affinato segretamente, con una perseveranza ossessiva. “Bisogna farsi sedurre dalle cose” mi sussurrava a bassa voce. Il suo studio è stato per me l’anticamera di uno dei mondi possibili. 

In Jannis Kounellis ho appreso la sua “dolce, bestiale, classicità”. Ho assimilato il distacco culturale dalla volontà di rappresentazione. Ho compreso l’appropriazione di uno spazio fisico e vitale. Ho assimilato l’incontro dialettico tra classico e contemporaneo. L’importanza dell’ombra. La sublimazione di una mensola. La drammaturgica teatralità. “Non si può insegnare a dipingere un quadro - mi diceva - ma si può insegnare a stare di fronte ad un quadro. Leggerlo storicamente”. Poi continuava “Bisogna cercare di vedere il lavoro da dentro, di non accontentarsi della superficie, ma cercare di scoprire le ragioni profonde che stanno dietro le cose”. Un incontro fondamentale per la mia educazione visiva e intellettiva.

 

La tua debolezza - sin da quando eri bambino - è caduta sul pavimento di vetro di un umile e comunissimo bicchiere da cantina per delle ragioni che riflettono un sociale più vicino al tuo modo di sentire la vita.

 

“La messa in scena di un’ossessione” lo ha definito Angela Vettese, concordo con lei. Non so spiegare come certe forme ti possono sedurre fino alla nausea. Forse perché il bicchiere oltre ad avere una forma, ne conserva un’altra: il vuoto. Questo volume trasparente, apparentemente svuotato, ha la proprietà di ospitare sempre nuove condizioni. A questo arcano oggetto ho delegato gran parte di tutte le mie inquietudini. Una sorta di pagina trasparente dove vomitare il mondo senza mai trascurarne la funzione. Lo considero il perimetro svizzero dell’anti-tutto. È lo spazio - partigiano - povero entro cui poter convivere senza dogmi o ideologie, significante vuoto della resistenza. Ed è a questo vuoto sinuoso ed elegante che ho dato in custodia vino, gesso cristallizzato, cartine oceanografiche, inchiostro, latte, polvere, oro e quant’altro per mettere in cortocircuito l’anatomia di pensiero dialettico. La mia prima mostra è del 1984.

 

Il tuo linguaggio espressivo - dopo una prima fase scultorea/installativa - si è sviluppato inizialmente mediante la tecnica del sottovuoto. I primi esperimenti risalgono ai primi anni ’90. 

In quel periodo usavo una plastica sottile e trasparente, mentre oggi (dopo anni di ricerca) sono giunto ad un materiale plastico, non sottile e non trasparente, il polistirene, che lavoro attraverso la tecnica della termoformatura. Il processo della termoformatura è una variazione più complessa del precedente sottovuoto, una sorta di trasmutazione che mi ha consentito di poter “ibernare” con maggiore solidità ed azzeramento cromatico gli oggetti mediante più fasi: riscaldamento-sottovuoto-raffreddamento.

Attualmente, questa pratica della termoformatura in polistirene si è arricchita anche di un aspetto più manuale. Infatti da quasi un decennio il lavoro non consiste più solo nell’esecuzione meccanico-industriale ma prevede anche una modellazione manuale del materiale stesso. Tra le pieghe è il titolo della personale che ho inaugurato a Ginevra nel 2013 alla galleria Gowen Contemporary e che traccia l’avvio di questo nuovo percorso. 

Da più di 8 anni la metafora della piega e del suo orizzonte filosofico (Deleuze) è parte decisiva del mio pensiero operativo. 

 

In questi giorni hai inaugurato una collettiva curata da Graziano Menolascina nell’Abbazia di Sant’Andrea in Flumine a Ponzano Romano. 

Sì certo. Attualmente oltre all’attività di artista porto avanti anche quella di docente di Plastica Ornamentale, Tecniche Plastiche Contemporanee e Disegno per la Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Frosinone.

Al momento sto lavorando a due mostre personali che si inaugureranno nel 2022. Una a Forte dei Marmi e una a Roma con lavori inediti. Inoltre è previsto per il prossimo anno l’uscita del nuovo catalogo monografico che riassumerà gran parte dell’ultimo decennio. Il volume sarà realizzato in collaborazione con la galleria Gowen Contemporary di Ginevra che dal 2013 mi rappresenta.

 

Parrana San Giusto (Livorno), Agosto 2021

 

* Intervista a cura di Maria Cristina Palombieri tenutasi nell'agosto 2021 e pubblicata sul quotidiano "La Città", n. 4684, Teramo, domenica 15 agosto 2021;