L'OSPITE, LA PIEGA, L'ENIGMA, IL SILENZIO

Intervista a cura di Helga Marsala

 

“Termoformature” è una mostra che suggella il percorso del workshop “Arte e industria in dialogo”, tenuto da Gino Sabatini Odoardi per un gruppo di circa 80 studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Tra il 7 e il 13 maggio 2019 l’Aula Colleoni accoglie alcune opere prodotte dagli ragazzi insieme all’artista. Due i fili rossi seguiti nel corso del laboratorio teorico-pratico “: il processo di “termoformatura in polistirene”, con cui Sabatini Odoardi trasfigura e cristallizza la natura degli oggetti; il tema dell’accoglienza, dell’ospitalità e delle migrazioni, a cui ha fornito preziose chiavi di lettura Massimo Carboni, saggista e docente di Estetica, con una lectio magistralis dal titolo L’altro che è in noi.  Ad accomunare i due piani i fattori “tempo” e “memoria”, dal punto di vista concettuale, estetico, poetico.

Se da una parte si è così sperimentato un particolare metodo di costruzione plastica, dall’altra gli studenti hanno identificato degli oggetti simbolici connessi al fenomeno dell’immigrazione: un percorso completato da una visita al Centro Astalli di Roma, luogo d’accoglienza per i richiedenti asilo, guidato da Padre Alessandro Manarese. 

Il progetto è a cura di Anna Maiorano, docente di ‘Decorazione – Arte Ambientale e Linguaggi Sperimentali’.

 

Helga Marsala: Partiamo dalla tecnica della Termoformatura, che dà il titolo al workshop e che contraddistingue la tua ricerca da molti anni. Si tratta evidentemente di un processo tecnico funzionale a una ricerca teorica sul tempo, sulla memoria, sulla dialettica tra vita e morte. Dai primi esperimenti con i sacchetti sottovuoto, fino a quest’uso singolare della plastica, che diventa una seconda pelle con cui trasfigurare gli oggetti, mi pare si tratti sempre di un tentativo di cristallizzazione del reale: immortalarlo, per non farlo morire. E così restituirlo a una vita nuova. Qual è il tuo rapporto con questi concetti? Il flusso del tempo, la fine delle cose, la sfida del ricordo… L’arte è una maniera per mettere in salvo il mondo, attraverso la sua immagine?

Gino Sabatini Odoardi: Il rapporto è sempre forzatamente contraddittorio, purtroppo la realtà è molto triste, un giorno ci ritroveremo tutti nella stessa posizione scomoda dietro una piccola parete di marmo. Il sole morirà disegnando una brillante nebulosa planetaria e la terra si dissolverà in particelle elementari. Il mondo naturale è analfabeta come il caos. Spariranno i capolavori di Leonardo e di Duchamp. Woody Allen affermò che gli artisti hanno il compito, importantissimo di distrarre l’umanità dal tragico destino che l’aspetta. Purtroppo io non riesco né a distrarmi e né forse a distrarre. Tutto è ignoto, un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione di giudizio appaiono l’unico risultato della nostra più accurata analisi. Uno smarrimento consenziente dunque. Pur tuttavia, la “Termoformatura” mi da quella sedativa e transitoria illusione di potermi affidare ad uno spettro postumo in maniera indolore. Essa ha un meccanismo dal fascino irreversibile. Ha la grande particolarità di “freddare” l’oggetto, dandogli quella fugace possibilità dopo l’inevitabile. Vivo la corruzione dell’attimo e la consapevolezza dell’imminente disfatta. E’ una delle mie tante “operazioni concepite postume” come atto di generosità verso il presente. Cosa può fare l’arte? Evadere da una stanza senza finestre. Per dirla con Claudio Parmiggiani “L’arte non ha bisogno di alcuna risposta. E’ una domanda che vuole restare tale”.

 

Come hanno affrontato gli studenti questo tipo di ricerca, dal punto di vista tecnico e concettuale? Quali spunti interessanti sono venuti fuori?

Non è stato facile far comprendere agli studenti questo tipo di ricerca. Successivamente con l’ausilio di esperienze video è stato più naturale l’approccio tecnico. Più complesso è stato l'orientamento concettuale, d’altronde argomentare sul buio, non è cosa semplice, anche perché ognuno di noi percepisce il reale in modo diverso. Svariati gli spunti che sono venuti fuori, soprattutto variabili legate alla tecnica esecutiva diversa per cultura e/o costume.

 

Come hai impostato il lavoro con i ragazzi, dal punto di vista teorico e pratico?

Inizialmente abbiamo visionato il mio portfolio, partendo da urgenze e motivazioni espressive e solo successivamente spiegando loro le varie fasi tecnico-pratiche realizzative. Di seguito, coordinatomi con la prof.ssa Anna Maiorano abbiamo dato il tema indicato, invitando gli studenti a progettare su carta eventuali proposte, idee o intuizioni; subito dopo a formularle mediante rendering digitali, collage, modellini, prototipi. A seguire, revisione e discussione orale dei progetti pervenuti, eventuali criticità esecutive, poetica, contenuti. Infine, realizzazione pratica degli oggetti/sculture in pre-termoformatura su pannelli sagomati (con relative solidificazioni).

 

Il tema che avete indagato è quello dell’immigrazione, la condizione dello straniero, il rapporto con l’altro, il destino di chi cerca un luogo, un approdo: in questo caso con che tipo di segni, di tracce e di testimonianza avete lavorato?

Purtroppo non è stato difficile calarci sul tema, segni, tracce e testimonianze sono sotto gli occhi di tutti, indistintamente. Il sociale, impastato di sabbia e mare, ci vieni incontro in ogni istante senza filtri. E’ meschino speculare sulla paura. Accogliere è un principio morale sacrosanto. Basta leggere l’Odissea, il poema omerico dell’ospitalità. Ricordo l’episodio di Ulisse che approda, naufrago, sull’isola di Nausicaa: l’eroe ha un aspetto poco rassicurante e, vedendolo arrivare, le ancelle della principessa fuggono spaventate. Ma è proprio Nausicaa a fermarle, rammentando loro che l’accoglienza è un dovere e invitandole a prestare ogni cura necessaria al nuovo ospite. Da questo punto di vista, dovremmo imparare dalla cultura classica. Come affermava Jacques Derrida, lo straniero porta sempre un dono. Del resto, tuttora in alcune zone dell’Italia meridionale permane l’abitudine di fare un regalo all’ospite proprio per contraccambiare il dono che ci fa venendo a casa nostra. Purtroppo i veri nemici della società non sono tanto quelli che la sfruttano o la tiranneggiano, ma soprattutto quelli che la umiliano. Il dolore è divenuto un globo, come la terra - mi confidava Fabio Mauri. 

Gli studenti, stranieri o non, avevano le loro rispettive storie da confidare. Visioni multiple coerenti e incoerenti, ratificate da segni oggettuali codificati. Niente di elogiativo, simbologie metaforiche, denunce. L’esercizio di uno sguardo disobbediente, l’invito di applicare alla realtà una simulazione alternativa, altrettanto efficace e incisiva alla narrazione spietata del vero.

 

La plastica è una costante nel tuo lavoro. Un materiale freddo, industriale, legato all’idea di artificio e di serialità, lontano dal tepore organico di tante ricerche di stampo poverista. Un materiale, però, che in qualche modo cerchi di “scaldare”, di ricondurre a una certa dimensione umana e vitale, proprio mentre – all’opposto – sottrai vita agli oggetti del quotidiano. Esiste questa doppia direzione? Che rapporto hai con questo elemento e quali significati dischiude? 

Le direzioni sono molteplici, sottendono diverse letture parallele. L’idea di freddo/caldo attraversa orizzontalmente gran parte di tutta la mia ricerca espressiva. Si alternano senza incidenti, dove non si esce quasi mai illesi. Nessun “tepore organico” in superfice ma solo serialità industriale smentita dall’oggetto “poverista” sottratto. Una sorta di francescanesimo inverso. Parallelamente dal 2013, in seguito ad un maturato interesse per il panneggio, perseguo un progetto - desimbolizzato - denominato “Tra le pieghe”. Il drappo, sempre presente nella mia ricerca, ha subito negli anni una mutazione mediante la trasformazione manuale della termoformatura. Un’idea connaturata della plasticità che si configura con l’armonia, l’equilibrio e la simmetria. Una sorta di canone aureo della sublimazione dove la metafora della “piega” costituisce un'intrigante espressione di “accordi”, come a ragione, ha sempre sostenuto Deleuze. La piega si replica all’infinito nel suo illimitato riprodursi, stratificarsi, comporsi in una nuova armonia. Quanto può essere armonico un fazzoletto appeso su una parete?

 

Altra costante, che torna pure questa mostra, è l’uso del colore bianco. Una scelta estetica precisa. Anche in questo caso emergono delle suggestioni poetiche: la materia immacolata, da cui far partire il processo creativo? Una sorta di ‘tabula rasa’, da cui costruire nuovi archivi, nuove memorie personali o collettive? Quali significati possibili?

Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto o indiretto sulla mente umana. Ho scelto il bianco, come lutto del colore stesso. Sfacciato come la moralità. Intenso come l’assenza. Il bianco non ha confini, esso è sottrazione ed apre al possibile. Un possibile che coincide con un unico punto di fuga, come il silenzio in musica. 

 

Roma, 5 maggio 2019

 

* Intervista a cura Helga Marsala tenutasi il  5 maggio 2019 e pubblicata sul sito dell'Accademia di Belle Arti di Roma (abaroma.it)