L'ARTE DI FERMARE IL MONDO

Intervista a cura di Fabrizio Gentile

 

L’arte di fermare il mondo: le suggestive termoformature tra critica sociale e provocazione

È l’uomo che plastifica gli oggetti. È il congelatore dell’esistente, colui che iberna in un momento eterno la quotidianità, astraendola dal contesto in cui siamo abituati a vederla. Gino Sabatini Odoardi è, a detta di molti esperti, una delle grandi rivelazioni della giovane arte contemporanea italiana. I suoi lavori che hanno entusiasmato la critica (e il pubblico, che lo segue fin dalla prima personale datata 1988) sono soprattutto quelli realizzati con la termoformatura in polistirene, una tecnica molto usata nel packaging commerciale, che consiste nel mettere un oggetto sottovuoto attraverso una copertura di plastica che aderisce alla forma dell’oggetto stesso.

Ho impiegato anni per ottenere ciò che volevo, spendendo di tasca mia un sacco di denaro. Mi sono rivolto alle fabbriche, è questo ha comportato un atteggiamento nuovo, proprio perché mi relazionavo con delle produzioni “diversamente” industriali. Anche per fare delle semplici prove, ottenere due o tre pezzi, qualsiasi fabbrica deve fermare la produzione ordinaria, e per fare questo, bisogna garantire economicamente l’intera giornata di lavoro. Fare l’artista è una necessità dispendiosa, in ogni ambito.

 

Ma può essere redditizia, a volte: dei “giovani-artisti-abruzzesi” tu sei uno dei più introdotti nel giro grosso, quello dei nomi importanti, delle gallerie, dei critici e dei collezionisti. Com’è il tuo rapporto col mercato? 

Incerto e sismografico. Immerso e distante allo stesso tempo. Purtuttavia sono obbligato a rapportarmi con esso. Come giustamente sostiene Kounellis, l’economia come fattore reale diventa espansione del proprio lavoro e dunque permette una forma di circolarità. E senza circolarità si creano solo opinioni ottuse. Lavoro dal 2004 nella scuderia di Oredaria, una delle più prestigiose gallerie romane con artisti come: Pistoletto, Zorio, Mochetti, Merz, Spalletti, Uncini, solo per citarne alcuni. Questa condizione sicuramente mi garantisce una certa forma di circolarità, ma ho anche capito che non è tutto e soprattutto non basta. Paradossalmente trovo molto più gratificante sapere che in questi giorni una studentessa dell’Università della Sapienza sta facendo una tesi sul mio lavoro.

 

Un lavoro che da anni ormai ruota attorno a un oggetto-feticcio, un simbolo ricorrente: il bicchiere. 

Non “il bicchiere”, ma “un” bicchiere: quello specifico “da cantina”, per delle ragioni che riflettono un sociale più vicino al mio modo di sentire la vita. È un oggetto che da sempre mi affascina, che costituisce per me fonte di intuizione, per la sua capacità di delimitare uno spazio e allo stesso tempo di ospitarne un altro: il vuoto. Questo volume apparentemente svuotato ha la proprietà di custodire sempre nuove condizioni con i materiali più disparati: vino, inchiostro, gesso, latte, grafite, cartine oceanografiche, materiali organici…

 

Già, il video con i cervelli. 

Quello (si riferisce a una sua videoinstallazione del 2010 che mostra l’autore lanciare contro un muro bianco cervelli di suino contenuti nei suddetti bicchieri, ndr) è stato un momento molto forte: desideravo scuotere e scuotermi, avevo bisogno di una performance provocatoria, disturbante.

 

Quanto è importante il gesto eclatante rispetto a una critica sociale più sottile? 

È la differenza che passa tra un tizio che entra in una scuola con un fucile e uccide dieci persone e la firma del politico corrotto sulla autorizzazione alla sperimentazione di un farmaco che in Africa uccide centomila disperati e di cui nessuno saprà mai niente. Il video è stato un episodio, non amo le provocazioni fini a se stesse, in genere il mio registro è più tenue: almeno dal punto di vista dell’impatto visivo, non certo da quello emotivo/concettuale. Trovo, per esempio, che la discrezione dell’opera Senza titolo con ciotola (2007) sia un grido molto più forte della performance del 2010. In fin dei conti è blasfemia pura.

 

Accade anche in altre tue opere, per esempio quelle termoformature che accoppiano un crocifisso con un ferro di cavallo, o l’acquasantiera con la scritta della Coca cola, o la statuetta della Madonna con i joypad della Playstation. Che rapporto hai con la fede? 

Sono radicalmente agnostico. Ho ricevuto un’educazione cattolica, della quale mi sono dovuto spogliare, e non senza fatica. Le associazioni degli oggetti non sono certo casuali, ma hanno il duplice scopo di desacralizzare il simbolo e di far scaturire una riflessione, un interrogativo in chi guarda l’opera. Prendiamo il crocifisso col ferro di cavallo: due simboli, fede e superstizione. Apparentemente, due cose lontane; nella realtà, non solo sono “cugine” (nel senso che spesso i loro confini si confondono) ma convivono nella quotidianità: quanti, per esempio, portano al collo una catenina col crocifisso e magari al polso hanno un braccialetto con un cornetto portafortuna?

  

Pescara, febbraio 2011

 

* Intervista a cura di Fabrizio Gentile e pubblicata sulla rivista "Vario" n. 74, febbraio/marzo 2011, Pescara.