TRA LE PIEGHE DEL DUBBIO

Intervista a cura di Beatrice Audrito

 

Nonostante la tua formazione prettamente pittorica, nel 1994 decidi di abbandonare la pittura tradizionale ponendo sottovuoto gli strumenti del pittore, la tela, i pennelli e le pezze sporche intrise di pigmento. È la morte della pittura. Un atto estremo che congela e sigilla “sotto plastica” la tua indagine precedente, quasi rinnegandola. Cosa ti ha spinto tanto in là?

Non ho mai rinnegato la pittura, anzi, vedo, penso, immagino gli oggetti sempre pittoricamente. Certo, la pittura intesa come pratica tradizionale l’ho abbandonata, ma questo non vuol dire che se domani dovessi avere un’idea, non tonerei ad impugnare i pennelli di nuovo. Il mio è stato un passaggio figurato dal diacronico al sincronico. Quando nel 1994, duchampianamente, decisi di fermarmi con la pittura è perché non volevo continuare a masticare ciò che era già stato rimasticato per enne volte. Non avevo idee che mi soddisfacevano, non ero appagato da quegli sforzi, non mi vedevo riflesso in una parodia. Avevo il contrario in corpo. Dovevo necessariamente ingoiare il mio doppio sbagliato. Lo feci platealmente rilegando in una teca tutte le pezze sporche utilizzate negli ultimi quadri per pulire i pennelli, un’opera-reliquia a testimonianza di quello che fu e non era più. Un punto zero del mio processo di rinnovamento. Subito dopo iniziai a smontare dai telai le ultime tele dipinte e successivamente le accartocciai come fossero delle poesie sbagliate a memoria, facendo attenzione di conservare con cura anche i chiodini utilizzati per il fissaggio. Compresi, con non poco stupore, che forse i miei dipinti erano molto più interessanti se semi nascosti o parzialmente percepibili tra le loro pieghe piuttosto che perfettamente intelaiati. Immobilizzai il tutto mediante la tecnica del sottovuoto, pratica industriale non ancora diffusa in uso domestico. Erano i primi anni Novanta. Realizzai un campionario di increspature sotto plastica che mi accompagnò per quasi un decennio. 

 

Porre l'arte sottovuoto. Un'operazione di matrice concettuale che sarà determinante nello sviluppo della tua ricerca. Da questo atto estremo ha inizio il tuo processo di pulizia formale che sfocerà in un nuovo ciclo di opere realizzate sperimentando la termoformatura in polistirene. Una tecnica industriale di stampaggio delle materie plastiche che -unico nel panorama italiano ed internazionale- hai applicato per la prima volta al campo dell'arte, adattandola alle tue esigenze creative per raggiungere in questi anni risultati estetico-formali innovativi. Com'è avvenuto il passaggio dal sottovuoto alla termoformatura? Cosa ti affascina di questa tecnica? 

Il passaggio è avvenuto gradualmente, il rumore del colore attraverso la sottile plastica trasparente mi disturbava. Desideravo da tempo un azzeramento cromatico. Sprofondare in un’idea monocroma mi avrebbe garantito il privilegio inverso al rumore retinico. Esigevo una mia personale risposta silenziosa al minestrone visivo del mondo. Ecco che scoprii, con non poche difficoltà, la tecnica industriale della termoformatura in polistirene. Era il 2003.

La termoformatura è una variazione più complessa del precedente sottovuoto, che mi consente -con la stessa identica negazione dell’aria- di ibernare con maggiore plasticità, ma soprattutto solidità, vari oggetti mediante più fasi: riscaldamento-sottovuoto-raffreddamento. È un processo di sepoltura semi-meccanico dal fascino irreversibile, che ha la grande proprietà di freddare l’oggetto per sempre, quasi dandogli un’altra possibilità dopo l’inevitabile. Questa tecnica continua a darmi quella sedativa e momentanea illusione di consegnarmi ad un fantasma postumo in maniera indolore. Placa -anche se parzialmente- le smisurate ansie. È una delle mie tante “operazioni concepite postume”, dove tutto quanto è avvenire è già passato, che non è un cominciamento di qualcosa, ma è già l’immediato dopo la fine.

 

La tua ricerca si esprime attraverso una poetica dell'oggetto di matrice duchampiana. Oggetti decontestualizzati che, posti sottovuoto, appaiono come ibernati, trattenuti dal materiale che ne maschera l'aspetto rivelandone solo la forma. Complice di questo azzeramento è il colore bianco o “lo stato bianco”, per citare un testo di Massimo Carboni. Una condizione neutrale che azzera la funzionalità degli oggetti, annullandone le differenze per renderli eterni, senza tempo. Come scegli gli oggetti da celare nelle tue opere? Che ruolo attribuisci al colore bianco? 

La scelta dell’oggetto da ibernare sotto plastica contempla inizialmente la forma e solo successivamente la propria carica simbolica. Naturalmente non sceglierei mai un oggetto privo di volumi, il gioco delle luci e delle ombre svolge un ruolo fondamentale nell’approccio pittorico alla propria conformazione. Ogni forma, per sua costituzione, ha un colore ed io ho scelto il bianco. Il bianco è una meravigliosa addizione della sottrazione che apre al possibile. È come il silenzio in musica, è un tempo musicale che può includere il mondo mediante l’astensione sonora (John Cage). Oltre al bianco, contemplo solo poche altre incursioni autorizzate: il nero, il rosso e molto raramente l’oro. 

 

Se rifletto sulla poetica dell’oggetto decontestualizzato penso a Cortocircuiti, un ciclo di opere legate all'indagine sui simboli dove hai posto in relazione tra loro oggetti appartenenti a contesti molto diversi, spesso “in bilico tra il sacro e il profano”. A proposito di simbologia legata agli oggetti, un grande corpus di opere ha per soggetto un particolare bicchiere. Un elemento che, negli anni, non hai mai abbandonato ma hai reiterato incessantemente declinandolo in infinite soluzioni estetico-formali, come una sorta di ossessione ricorrente. Quale seduzione ha per te questa forma? Cosa si nasconde nel tuo bicchiere? 

Il progetto Cortocircuiti nasce dall’esigenza di mettere in contrapposizione simboli dogmatici codificati. La modalità con cui affronto il concetto di sacro poggia su un atteggiamento agnostico, sulla ferma convinzione che l'assoluto sfugga alla mente umana e, di conseguenza, non sia possibile parlare di ciò che non si conosce. L'intenzione, piuttosto, è quella di mettere in discussione l'indiscutibile -anche quando si tratta di scomodare la storia- per contestare l'accettazione passiva dei fatti. 

Il mio bicchiere è il mio mondo. Un comunissimo piccolo bicchiere da cantina antiborghese dalla forma semplice, minimale, anonima, indifferente. Ciò nonostante, da sempre, la sua forma ha catturato tutte le mie attenzioni irrisolte. Avevo dieci anni quando fui sedotto da questo enigmatico oggetto trasparente. Ed è a esso che ho delegato gran parte delle mie inquietudini. Lo considero il perimetro svizzero dell’anti-tutto. È lo spazio -partigiano- povero entro cui poter convivere senza dogmi o ideologie, significante vuoto della resistenza. Cosa si nasconde nel suo interno? Semplicemente il dubbio! Mentre tutto il catechismo liquido è rigorosamente fuori.

 

A proposito del bicchiere, il tuo studio ad Alanno (Pe) lo ricorda in un modo impressionante.

Proprio così, da ventiquattro anni mi nascondo a vista nella pancia del mio bicchiere di pietra rovesciato. Una meravigliosa torre di avvistamento medioevale a pianta circolare del XIV secolo. La sua planimetria tonda ha sedotto e influenzato da sempre la mia percezione. Non avere riferimenti ad angolo retto nella stanza mi rassicura molto. So di trovarmi in un punto preciso di un cerchio perfetto dove sono seduto a capotavola. Tutto lì dentro è inizio/fine. Non è un luogo, è una condizione senza fossato che riesce a dar sollievo al mio disordine di fondo. 

 

Un altro elemento molto presente nelle tue opere è la piega, spesso declinata nel drappo o nel panneggio in un gioco di continuo svelamento e nascondimento. Un motivo di rappresentazione proprio della pittura classica o dell'estetica barocca che tu esegui grazie alla termoformatura “non automatizzata”. Che valore ha per te? Cosa si esplicita “tra le pieghe”?

Forse il significante è da ritrovare nella mia infanzia: provengo da una famiglia storica di tappezzieri e di conseguenza ho sempre avuto residenza stabile nel panneggio. La termoformatura contempla anch’essa per sua natura la logica della piega avendo caratteristiche formali plasmabili. L’equazione deduttiva mi ha portato ad uscire fuori dal quadro mediante dispiegamenti verificabili. La piega è una magia composta di senso che si replica all’infinito nel suo illimitato riprodursi, stratificarsi, costituirsi. Questi labirinti nomadi senza finestre hanno la grande proprietà di celare nuove armonie in cui ogni azione è un’azione interna, piega nella piega, ombra nell’ombra. Ogni lieve ondulazione coagulata sfugge alla rigida scala diatonica della forma, un gioco espressivo di “accordi” (Gilles Deleuze). Ogni panneggio è una ruga barocca che cela tracce e segni che coincidono con gli elementi essenziali della percezione, luce/ombra, bianco/nero, interno/esterno. Drappi, che nelle loro infinite combinazioni, raccontano le innumerevoli risvolti della vita, dove niente è chiaro e rivelato. La plasticità dell’ombra nascosta è sperimentabile ma non verificabile, così come gli ingressi multipli diretti all’anticamera del pensiero muto. È qui che ripiego, da astigmatico, il mio sguardo ateo sul mondo. 

 

La realizzazione materiale di una tua opera è spesso un “atto senza ritorno”. Nel caso della piega, la termoformatura è declinata con un intervento assolutamente manuale, fisico e istantaneo sulla materia che non permette ripensamenti. La tua azione è irreversibile. Come sei riuscito, nel tempo, a trovare un compromesso con la materia? Che ruolo hanno il tempo e il caso nel processo realizzativo dell'opera?

La plastica è permalosa. Non si lascia modellare tanto facilmente come si potrebbe pensare. Essa richiede conoscenza, esperienza e un pizzico di sana follia. Tutto si sviluppa in un’azione di pochi istanti (sette o otto secondi al massimo). In un gioco di casualità controllata, cerco di modellare manualmente la materia secondo visioni già digerite, verificate, sperimentate da decine e decine di disegni e progetti preparatori. In tutto questo, il tempo detta la danza delle mani. Una performance in presa diretta, senza la possibilità che si possa errare.

 

In un senso più ampio, che valore ha il concetto di tempo nella tua ricerca? Come si declina? Quando pensi al tempo, su cosa rifletti?

Il più grande tiranno del mondo purtroppo è il tempo. Nel mio lavoro c’è l’ingenua volontà mal riposta di arginare un tempo che non vede l’ora di chiudere i conti. Cerco, provo a congelare oggetti bloccandoli, ibernandoli o meglio mummificandoli sotto plastica per frenare la propria transitoria disfatta. Ma tutto è fallimentare. L’orologio non si ferma. Sono opere morte che giocano a nascondino con l’istante vuoto. Silenziosamente postume a sé stesse. Amo solo il tempo sulla meridiana solare, perché ogni tanto si ferma per lasciar passare qualche nuvola.

 

La tua ricerca si configura come una profonda riflessione sull'inconoscibilità del mondo, un assioma messo a nudo dall'ineluttabilità dei tuoi lavori che riflettono su concetti filosofici universali come il tempo, lo spazio e la memoria. Opere che affrontano i grandi enigmi dell'esistenza ponendo continui interrogativi sul mondo, senza mai offrire soluzioni ma nutrendo costantemente il dubbio. Cosa ti spinge a questa indagine? È questa la strada per raggiungere la verità?

Da sempre la mia indagine preleva motivazioni dal disagio, dall’insofferenza, dal malumore di essere al mondo inconsapevolmente. Due sono le cose di cui non ti insegnano nulla a scuola: la nascita e la morte. È proprio assurdo. La morte è inaccettabile e tutto il mio lavoro parte da lì, è come se la morte fosse un difetto fondamentale del mondo. Non puoi segnarla sull’agenda. Ti guardi intorno, la polvere si deposita e ti riguardi intorno con un’inquietudine infinita. Non ci sono risposte dogmatiche e religiose che mi consolano, così come non ci sono verità che mi confortano. Purtroppo la realtà è molto triste, un giorno ci ritroveremo tutti nella stessa posizione scomoda dietro una piccola parete di marmo con fiori finti. Il sole morirà disegnando una brillante nebulosa planetaria e la terra si dissolverà in particelle elementari. Il mondo naturale è analfabeta come il caos. Spariranno in un attimo i capolavori di Leonardo e di Duchamp. E quindi? Tutto è ignoto, un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione di giudizio appaiono l’unico risultato della nostra più accurata analisi. Cosa può fare l’arte? Impugnare la vita dalla lama e cercare di evadere da una stanza senza finestre.

 

Che funzione ha l’elemento di disturbo nella tua opera? Mi riferisco ad oggetti che, inseriti nelle tue candide serialità urlano la rottura con il tutto. Penso al panno rosso che spezza la serie dei bianchi panneggi, penso al nero o alle lapidi “Senza titolo” 2008 dove l’elemento mancante diserta l’armonia globale.

Amo quando un ritmo seriale, modulare, sistematico, impeccabilmente perfetto viene tradito dall’elemento di rottura che spezza la regola della consuetudine. È il gioco della vita, dove il caso entra nelle trame dell’esistenza a gamba tesa e senza preavviso. La frattura non è consolatoria, essa sfugge allo statuto dell’armonia. È l’ordine che si scompone e giustifica un dubbio irrisolto. Questa incursione può essere giustificata dal colore rosso concepito come l’incantesimo dell’atto, del “qui e ora”. Mentre nel caso della mancanza, il vuoto viene riempito dal suo fantasma. È lo specchio che ingoia sé stesso non senza lacerazioni. Invece nella circostanza del nero c’è qualcosa, non saprei dire cosa, esso non piange, non reclama consensi, ma sa prendersi cura del mistero gelosamente.

 

Anche la tensione generata da elementi sospesi o da oggetti pericolosamente inclinati ha un grande peso nel tuo lavoro (Senza titolo con sedie). Molte tue opere si trovano spesso in situazioni di equilibrio precario. Penso a Decentrato, la grande installazione che hai presentato nel 2016 in occasione della tua mostra personale alla Whitelight Art Gallery di Milano, nello spazio Copernico, ma anche a Senza titolo, l’installazione di drappi appesi al soffitto esposta all'Alviani ArtSpace o alla complessa installazione Senza titolo con secchi presentata in occasione della mostra Prova generale Senza Titolo presso il Museo Laboratorio Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo (Pe), progettata nel 2017 per il Drawing Lab del Centre d’Art dédié au dessin contemporain di Parigi. Perché questa scelta sempre in bilico?

È lo stesso ruolo delle parti dove l’equilibrio precario gioca a scacchi con il baricentro del mondo senza certezze. Mi piace l’idea di ridisegnare sempre nuove sospensioni, nuove livellature. Siamo tutti ostaggi, cambia solo la postura.

 

Ti servi spesso di figure retoriche come l'ossimoro o il paradosso, locuzioni proprie del linguaggio verbale che traduci abilmente in termini visivi per porre il fruitore in una situazione scomoda, di spiazzamento. Qual è la logica che soggiace a questa scelta?

Ci sono argomenti che non si possono spiegare con la logica. Di conseguenza qualsiasi fruitore che desideri avvicinarsi al mio lavoro deve per forza gettarsi in acqua se non vuole bagnarsi. La logica, come sappiamo tutti, è la nemica dell’arte. Per dirla con Magritte “nella vita tutto è mistero”, quindi sposare l’ignoto come scelta radicale ti pone nella condizione di non aspettarti nulla da niente. 

 

Nonostante l'utilizzo di una tecnica così innovativa come la termoformatura in polistirene, prima di realizzare un'opera ti affidi sempre al disegno. Che valore ha per te?

Il disegno è il delegato dell’urgenza. Esso fissa il primo punto, porta con sé come qualità il desiderio. Il disegno mi permette di entrare nel cuore della ricerca, dove si addensano spunti, riflessioni, ripensamenti, memorie. Prende corpo in un ambiente dominato dalla presenza di centinaia di segni, linee, grovigli, macchie e che assorbe in sé sia la genesi progettuale che la compiutezza della forma. Il disegno è il fantasma dell’opera.

 

La scorsa estate, in occasione della mostra Nel cilindro del dubbio presso il Forte Leopoldo I di Forte dei Marmi, hai presentato un ciclo di opere inedite ispirate alla novella Mario e il Mago dello scrittore tedesco Thomas Mann. Trentatré opere termoformate sull'oggetto del bicchiere, sulle quali prendono forma trentatré disegni in bianco e nero ricavati da stampe di fine Ottocento dedicate ai trucchi di magia. I disegni, che illustrano come far apparire e scomparire gli oggetti, si modellano sulla sagoma del tuo bicchiere, già sottratto alla visione grazie alla tecnica della termoformatura, amplificando il tema dell'inganno visivo. Il protagonista è ancora una volta il bicchiere termoformato che però accoglie il disegno. Come sei giunto a questa evoluzione?

La magia è sempre stata la mia grande passione. Da bambino non riuscivo a dormire la notte pensando ai prodigi degli illusionisti. Era risaputo che dietro la tenda del palcoscenico si nascondevano quelle grandi verità truccate dove si generavano miracoli. Dovevo assolutamente intrufolarmi dietro quella tenda, non c’era verso. D’altronde la storia ce lo insegna, basta ricordare i meravigliosi trucchi del matematico e ingegnere Erone di Alessandria il quale utilizzava la pneumatica nei templi antichi al fine di destare la meraviglia dei fedeli per scopi meno onorevoli.

Per anni ho acquistato centinaia di libri di giochi di prestigio, solo per capire come si potesse generare stupore mediante inganni indefinibili. La scorsa estate, in coincidenza con l’invito di fare una mostra personale in quel luogo che Thomas Mann chiamava Torre di Venere, decisi di rivisitare questo amato tema. Naturalmente nella famosa novella di “Mario e il mago” Mann prese a pretesto il Cavalier Cipolla, un illusionista che, attraverso l’utilizzo della magia, personificava il potere soggiogante di leader autoritari europei dell’epoca tramite la retorica nazionalista. Nel mio caso, desideravo plasmare la bugia spiegata del disegno, sulla pelle di plastica dei miei bicchieri su mensola. Volevo indagare, attraverso la seduzione della forma, quella sottile linea di confine che si genera tra ciò che spiega l’inganno e ciò che si fa miracolo. Fare della spiegazione di un trucco, la magia stessa del visivo. Un gioco delle parti tra ciò che chiarisce e ciò che si manifesta nascondendosi. Un falso disegnato sull’ordine.

 

Nei tuoi ultimi lavori ti avvicini alla figura di Andrea Palladio, “prendendo in prestito” alcuni dei suoi migliori progetti architettonici. Perché questo tuo interesse?

Andrea Palladio è la matematica della bellezza. La sua estetica è fondata sull’ordine, sull’equilibrio, sull’armonia, sulla proporzione, sulla simmetria ma soprattutto sul rapporto organico tra le parti. 

Nel mio progetto desideravo mettere in relazione quest’idea di bellezza geometrica in pianta con la sismografia di un panno. È il bello che tenta di ridisegnarsi tra le pieghe con nuove implicazioni. La linea retta deve dar conto alle ondulazioni sensuali di un drappo, rispondere, a proprio modo, ad un panneggio performativo dove l’equilibrio è dismesso nel flusso delle sue stesse ombre. Un gioco erotico di simmetrie scomposte, di segmenti perpendicolari disallineati, il tutto tradito dalla forma che cerca di acquisire nuove stereometrie. Anche la tautologia speculare del tratto, trova riscontro nell’asimmetria di un colonnato smembrato. Si capovolge il comandamento dell’ordine tra le montagne russe di un paramento mosso, dove l’ornamento non è mai contemplato. 

 

In che direzione va oggi la tua ricerca?

È difficile risponderti, e poi il termine “ricerca” mi fa sempre un po’ sorridere. Intanto partiamo dal presupposto che non “troverò” mai nulla. Solo scontato questo bisticcio terminologico -e poi non così scontato- possiamo iniziare a parlare di percorsi. Un viaggio in salita il mio, dove mi nutro costantemente di solo pane e dubbio, da sempre. Un po’ come Thomas Eliot, ogni volta che parto mi sembra di arrivare al punto dal quale mi sono allontanato e di conoscere quel luogo per la prima volta.

 

Definisci il tuo lavoro con una frase.

Postumo al nulla.

 

Pietrasanta (Lu), aprile 2023

 

* Intervista pubblicata sul catalogo monografico "Tra le pieghe del dubbio", a cura di Claudio Libero Pisano e Adriana Polveroni, ed. Maretti, Imola (Bo), 2023, pp. 23 - 32.