ENRICO SCONCI

"GINO SABATINI ODOARDI"

 

Questo numero di “ART E TRA” è interamente dedicato alla mostra personale di Gino Sabatini Odoardi, il cui lavoro di ricerca e sperimentazione ritengo vicino alla strategia culturale portata avanti ormai da anni dal nostro museo.

Non a caso l’artista viene presentato da autorevoli personalità del mondo dell’arte, come il critico Cecilia Casorati, a cui siamo grati perché ci pungola continuamente con proposte innovative, e l’artista Fabio Mauri, che in più occasioni, con azioni ed eventi di grande livello – primo fra tutti l’atto in mostra Che cosa è filosofia – Heidegger e la questione tedesca – concerto da tavolo(prima mondiale 16 Maggio 1989, numero 2 di “ART E TRA”) – ha dato una forte impronta al nostro lavoro.

Conoscendo la ricerca di Gino, ormai da anni, essendo egli un assiduo frequentatore del museo, provo ad avvicinarmi ancora una volta alla sua opera.

Un aspetto della sua prima produzione, credo riguardi il passaggio fondamentale dall’apparenza alla concezione dell’arte, individuabile nell’opera“Impossibilità espressa”, del 1995, dove viene operata subito una scelta di campo che si pone in netta distanza dalla pseudo-spontaneità di certa arte informale ed espressionista.

Avvertiamo quindi in quest’opera un atteggiamento di astinenza espressiva,tipico dell’arte minimalista, un minimalismo “caldo”, però, e non “freddo” come quello americano.

L’artista crea una struttura geometrica di mensole con sopra quindici bicchieri di vetro contenente un liquido, tecnicamente reso solido, di color rosso, in modo da creare un trompe l’oeil:un solido che finge di essere un liquido che sta per uscire dai bicchieri, come se gli stessi si trovassero su un piano inclinato.

L’arte è continuamente in uno stato di precarietà,ed è tuttavia in grado di sfidare qualsiasi legge, anche quelle fisiche: viene creato dall’artista uno piazzamento nei confronti della realtà con una intenzionalità mentale ed una ipotesi procedurale risolta logicamente e razionalmente.

Questo modo di operare, anche se l’artista sviluppa una propria autonoma ricerca, ci fa pensare all’arte concettuale; dice infatti Sol Le Witt: “quando un artista utilizza una forma di arte concettuale, vuol dire che tutto il progetto e tutte le decisioni vengono prese anticipatamente e che l’esecuzione si riduce a un fatto meccanico”, ed ancora: “l’idea diviene una macchina che crea l’arte” (1965).

Quest’ambiguità voluta e programmata da Sabatini Odoardi, si sposta anche oltre l’inganno visivo, oltre il contenuto intuitivo ed emotivo, che si può sempre creare in chi guarda l’opera.

“I quadri li fanno coloro che li guardano”, diceva Duchamp. Ecco allora che da questo punto di vista l’espressione entra a far parte dell’opera solo come attività dello spettatore. Sarà quindi, per riprendere un’analisi molto lucida fatta da Sergio Lombardo sull’opera di Piero Manzoni, lo spettatore, con la sua struttura psichica, ad esprimersi, stimolato dall’opera non espressiva dell’artista.

Sabatini Odoardi si muove quindi volutamente sulla bivalenza, mettendo in gioco, simultaneamente il vero e il falso, la realtà e la finzione, la stabilità e l’instabilità, ponendo l’arte nello spazio delle opposizioni tra materia mobile e immobile, vivente e non vivente.

Il prelevamento degli oggetti (i bicchieri) già pronti nella nostra realtà quotidiana, non impedisce all’arte di sfidare le leggi fisiche, statiche, per aprirsi agli infiniti territori della scienza e dell’immaginazione.

Quest’opera mette allora soprattutto in questione la natura puramente formale ed estetica dell’arte, ponendo l’accento sul significato e non solo sul significante. Non si tratta quindi di un puro esercizio estetico o di gusto, di puri rapporti di colori e forme, ma invece di mettere in bilico, in discussione, l’idea tradizionale di arte come fatto puramente decorativo e consolatorio. Trovo molto innovativo questo lavoro, perché sono fermamente convinto che fare arte oggi significhi soprattutto ridiscutere il suo significato, ma anche avere la capacità di interrogarci sempre sulla sua “instabilità”, per comprendere meglio il suo ruolo all’interno della società. Occorre cioè parlare una nuova lingua così come fu fatto con primo ready-made di Duchamp, che spostava il proprio obiettivo dalla forma del linguaggio a quanto veniva detto, così che la natura dell’arte passava da una questione di morfologia a una questione di funzione.

Un’altra opera dal titolo “Tonaca: 18 maggio 1996” del 1996, che abbiamo avuto occasione di esporre recentemente alle “Postazioni” di Castello Brancaccio, si avvicina al tema del sacro: si tratta di una tonaca di juta che ci ricorda quella di S. Francesco, su cui sono stampate, con la tecnica serigrafia, le notizie di cronaca delle maggiori testate giornalistiche italiane. La sacra e muta presenza del vestito mistico del Santo sembra cogliere in sé le contraddizioni del mondo, l’intervento dell’artista aggiunge significati e restituisce nuova vita e colore al pensiero di questo “oggetto ansioso”, venendosi a creare, anche in questo caso, una sorta di piazzamento e di rimessa in discussione, tra la nostra sopita memoria e la drammatica pressione del presente, reso istantaneo dal mondo dei mass-media che, per dirla con Mc Luhan, “…coinvolgono tutti, e di colpo. Non è possibile né distacco, né cornice”.

Già questo tema della protezione sotto vetro sembra annunciare lo sviluppo dei sottovuoti in cui gli oggetti vengono come bloccati in un altro ordine, come se l’artista avesse coscienza che l’arte, anziché pareggiare la vita, argomento questo molto caro alle avanguardie storico, le si opponga.

In alcuni casi sono i vestiti dell’artista ad essere non solo presentati ed esposti, prelevati dal quotidiano (come è stato fatto dagli artisti pop), ma in più “surgelati” come prodotti alimentari da supermercato, che non possono essere però “consumati” subito, perché sono in attesa di essere scongelati in un tempo migliore, forse in un lontano futuro.

Esiste in queste, come in altre opere, un senso di continua precarietà dell’essere nel mondo, quasi una negazione del pulsare della vita e del tempo che viene bloccato.

In particolare un’opera viene realizzata direttamente con gli oggetti personali del vissuto dell’artista, a sottolineare, credo, proprio questo dato di natura esistenziale: indumenti, scarpe, braccialetto ed orologio vengono messi tutti sottovuoto, come a “futura memoria” di un attimo particolarmente significativo della vita dell’artista.

Da tale gesto comportamentale possiamo desumere che tra oggetto (gli indumenti) e soggetto (l’artista) si crei una specie di dissociazione: non si è più in grado cioè di formare un’unità.

L’artista separa da sé gli indumenti del proprio vissuto, della propria esistenza quotidiana, amati o rifiutati, li cataloga come fanno i poliziotti in caso di incidente stradale, e li mette “sottovuoto” rendendoli momentaneamente privi di vita. Possiamo intravedere in questo comportamento anche un “senso di colpa”, che è della società tutta, che impedisce all’artista di vivere: una negazione della vita che contiene anche il senso dell’ironia e/o del dramma.

Sappiamo che le forme nascono da altre forme, e che quindi l’arte genera latra arte: ancora un’opera di Sabatini Odoardi mi ha colpito particolarmente, si tratta di una tela dipinta, smontata dal telaio e accartocciata, con relativi chiodini, fissati in modo stabile dal sottovuoto. Da quest’opera posso intuire che un possibile sviluppo della ricerca di questo giovane amico possa essere quella di mettere sottovuoto, in una specie di deposito temporaneo, anche il sistema tradizionale dell’arte.

Soprattutto nelle ultime opere mi sembra di intravedere una sorta di drammaturgia del contemporaneo (comune a molti artisti della nuova generazione) accompagnata a quella lucida e straordinaria libertà del momento creativo dell’artista, che è cosciente di duplicare la vita, dato che questa è per il momento ancora invivibile.

 

L’Aquila, Giugno 1998 

 

* Testo critico pubblicato sul periodico d’Arte e Architettura "Art E Tra" n. 9, Luglio 1998 (numero speciale monografico), ed. MUSPAC Museo sperimentale d’Arte Contemporanea, L’aquila, 1998, p. 2 - 3, in occasione della mostra personale “Gino Sabatini Odoardi” a cura di Enrico Sconci (24 - 26 Luglio 1998) ex Convento Oratorio delle Grazie - Alanno (Pe).