SABRINA VEDOVOTTO

"SENZA TITOLO CON FANTASMI"

 

“Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustiza mosse il mio alto fattore: fecemi la divina protestate, la somma sapienza e l’primo amore. Dinanzi a me non fur cose create se non eterne e io etera duro. Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!”  * (Dante, Inferno, Canto III)

 

Non mi stupisco né mi emoziono quasi più. È una cosa incredibile, nemmeno una cosa tanto positiva, ma è così. Forse il vedere tanti lavori, tante opere d’arte, rende la percezione delle stesse diversa, meno intensa. O forse, più probabilmente, oltre all’occhio abituato, non esistono più tanti lavori in gradi di rendere suggestioni alchemiche, a dare quell’energia, a rendere testimonianza di un qualsivoglia sentimento. Non è una bella sensazione, sarà perché sono le emozioni quelle che danno senso alle cose, o sarà anche perché si ha bisogno di testimonianze che vengano da dentro, da quello stomaco che si stringe e si allarga. Per questo e forse anche per altro che poi tenterò di spiegare, per questo dicevo mi sono meravigliata e quasi basita, ritrovandomi con il cuore a battere, con delle sollecitazioni che avevo dimenticato potessero esistere, una volta trovatami davanti al lavoro di Gino Sabatini Odoardi. Non si tratta voler essere esageratamente di parte, è che davvero il lavoro che Sabatini Odoardi ha presentato a Roma ha lasciato tracce indelebili, oso dire, e me ne prendo la responsabilità, in ognuno di coloro che hanno avuto la possibilità di vederlo. L’opera, dal titolo “Senza titolo con fantasmi”, racconta una storia, la nostra storia, la storia di tutti coloro che in questo momento storico si trovano a vivere. Sabatini Odoardi non ama un mezzo a discapito di un altro, la sua capacità di artista lo rende disinvolto e a proprio agio sempre e comunque. Per questa occasione ha pensato una performance, una azione, anzi meglio, ha ideato un ragionamento poi decostruito e ricostruito con mezzi diversi. Ha messo in campo un qualcosa di preesistente, ma ne ha cambiato la forma estetica, rendendo il visibile non visibile e il contrario. Il lavoro si è basato dunque su un approccio visivo, contestuale ma anche emozionale. Ad un approccio puramente percettivo, l’emozione principe trovava un equilibrio con quello che si vedeva. Un numero di extracomunitari seduti davanti a finte bancarelle realizzate in termoformatura in polistirene. Dove inizia il vero e finisce il verosimile, o anche, dove si trova la linea impercettibile tra il reale e il fittizio? L’approccio visivo è inquietante e allo stesso tempo emozionante. Davvero sembrano quegli extracomunitari che troviamo per strada, di fronte alle fermate delle metro. Anche loro, questi che ora stanno giocando in un certo senso con questa performance, sanno bene di rappresentare un qualcosa in cui tutti siamo partecipi, protagonisti o semplici comparse. È il gioco delle parti,. Una mise en scene, un artefatto ma non così distante da quello che viviamo. Le sensazioni che si provano di fronte ad una cosa del genere, sono infine molto simili a quelle che altrimenti proveremmo se fossero realmente venditori davanti alle loro bancarelle. Imbarazzo, forte, enorme imbarazzo. Perché anche noi siamo, anche non volendolo, complici di questo meccanismo assurdo a causa del quale la dignità è sovente lasciata di lato al fine di avere memoria di un finto mondo da raccontare. Gli extracomunitari, costretti loro malgrado a vendere chincaglierie spesso inutili, a volte di scarsa qualità, vedono in questo lavoro quasi una sublimazione del loro lavoro, inutile ai più ma in questo contesto innalzato a paradigma di una realtà che, pur mettendo paura, non possiamo fare a meno di osservare, e in alcuni casi di vivere, quando anche di condividere. Perché questo è quello che passa il convento, e di questo convento noi, passivamente, subiamo le regole. 

 

Roma, Maggio 2007

 

* Recensione pubblicata sulla rivista mensile “Mente Locale” n. 4, Pescara, Giugno, 2007.